di Alberto Zampetti - 16 April 2022

Parigi-Roubaix, una domenica all’Inferno

Domani si corre la Parigi-Roubaix, terza delle cinque Classiche Monumento. Protagonisti sono i corridori, i luoghi, la polvere, e lui... quel pavé che sa trasformare una gara in una pagina memorabile di sport.

C’è chi la odia (molti). C’è chi la ama (pochi). C’è chi la sopporta (tutti gli altri). La Parigi-Roubaix, in calendario domani, non ammette deroghe: se ti schieri alla partenza, devi schierarti tra sostenitori o detrattori. Della corsa, ogni anno si dice di tutto e il contrario di tutto: anacronistica, ma affascinante; superata, ma prestigiosa; inopportuna, ma importante... Salvo poi ricordarci che è pur sempre una Classica Monumento e convenire tutti quanti che, al di là degli aggettivi, resta - la si ami o la si odi - la Regina delle Classiche.

È la corsa più bella. Punto.

Per i tifosi è passione vera, sentimento quanto mai opportuno, vista la frequente concomitanza (come domani) con il giorno di Pasqua. Per i corridori è, al contrario, un inferno (del Nord) che inizia a Compiègne - zona nord di Parigi - e arriva a Roubaix in 257 km, di cui 54,800 su pavé, frazionati in trenta settori.

Attenzione a questi nomi

La Foresta magica

Tutti nomi chiamati alla sfida con le pietre, nei punti decisivi della corsa: la Foresta di Arenberg, Mons-en-Pévèle, il Carrefour de l’Arbre e lo storico velodromo di Roubaix, un impianto quanto mai spoglio ma che per un giorno è il Maracanã del pedale.

È proprio il passaggio nella Foresta di Arenberg il momento più iconico della gara. Un drittone-tremolone dove si sa come si entra, ma non si sa come si esce. In TV ci ricordano sempre (è un obbligo: succederà anche domani) che la Foresta non può dire chi vince, ma decreta chi perde. I corridori lo sanno bene e arrivano a cannone per entrarci nelle prime posizioni, perché in quel budello può succedere di tutto. Non solo è sconnesso da paura; è anche stretto e, non bastasse, l’organizzazione ne transenna pure i lati.

Dicono che sia una misura per disciplinare l’accesso del pubblico, che in quel punto è enorme. Sarà; ma per i corridori è un ulteriore ostacolo in un ambiente già ostico di suo, che impedisce loro il sospirato corridoio a bordo strada, per lenire appena un po’ lo sbattimento di polsi e chiappe.

Eppure la Foresta è magica e quei 2.300 metri sono i più belli di tutta la stagione. Si inizia a menare cinque/dieci chilometri prima, come se si dovesse preparare una volata sul traguardo dell’ingresso. Spesso tira vento: di solito è contrario e porta l’odore della mina per accendere la sfida. Se è a favore, si corre a velocità di decollo e tutto è amplificato.

L’ultimo chilometro prima della Foresta è ampio e tutto dritto, a vantaggio della velocità. Poi, improvvisamente, il passaggio a livello che taglia la strada e la strozzatura, violenta e fulminea, che immette nel budello. In discesa. Sul pavé. In mezzo alle transenne. A sessanta all’ora. Novanta km all’arrivo. Non è finita. O, forse, sì.

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