di Davide Mazzocco - 09 November 2022

Come si scrive quando si scrive di ciclabilità

A margine del Bike Pride si è svolto al Campus Einaudi di Torino un interessante convegno sul linguaggio che i media utilizzano quando si parla di ciclabilità

Quali sono le parole che si scelgono quando si parla di chi va in bicicletta? Quali gli aggettivi che accompagnano il ciclismo e i ciclisti sui media e nel dibattito pubblico? A margine del Bike Pride, la più grande biciclettata d’Italia che si è svolta a Torino domenica 23 ottobre, il Campus Einaudi ha ospitato un interessante convegno organizzato dall’Associazione Fiab Torino Bike Pride, in collaborazione con il Green Office dell’Università degli Studi di Torino e il patrocinio dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte, sul tema della comunicazione della mobilità.

“Il modo in cui raccontiamo collisioni e mobilità modifica l’approccio che lettori e lettrici hanno e avranno delle strade e sulle strade” ha esordito Elisa Gallo, presidente di Bike Pride e consigliera Fiab, illustrando alcuni titoli dei quotidiani e quattro tendenze della stampa nazionale: 1) la spettacolarizzazione dell’incidente, 2) la personificazione delle automobili (quasi sempre è l’auto e non l’automobilista a causare l’incidente e anche le strade diventano “killer” o “assassine”), 3) la minimizzazione della responsabilità di chi guida e 4) la colpevolizzazione della vittima (di cui si sottolineano mancanze o errori spesso ininfluenti nella dinamica del sinistro).

Marco Scarponi, presidente della Fondazione Michele Scarponi intitolata al fratello morto nel 2017 durante un allenamento, partendo dall’esperienza personale ha ricordato come la violenza stradale sia oggi, in Italia, la prima causa di morte fra gli under 50. “Nel corso del XX secolo i mezzi di trasporto hanno fatto più vittime della Seconda Guerra Mondiale – ha spiegato appoggiandosi anch’egli ai numeri Matteo Jarre di Decisio –. Attualmente in Italia vengono compiuti 300 omicidi ogni anno, mentre le vittime di violenza stradale sono 3000, dieci volte tanto”.

Cuore dell’incontro è stata l’investigazione socio-linguistica compiuta dalla ricercatrice Maria Cristina Caimotto che nel suo Discourses of Cycling, Road Users and Sustainability ha analizzato come i ciclisti vengano descritti dalla stampa e dalla società nel mondo anglosassone. Uno dei dati che sono emersi è come nel 33% dei titoli sia l’auto a impattare con la vittima e non l’automobilista (“responsabile” solo nel 6% dei casi). Una sfumatura? Assolutamente no se si considera un’altra ricerca che ha evidenziato come il termine cycling abbia prevalentemente un’accezione positiva, a fronte del termine cyclist spesso connotato negativamente. Ma non finisce qui: un’attenta analisi del processo di disumanizzazione dei ciclisti da parte del dibattito pubblico mette in luce come per questi vengano utilizzati gli stessi termini adottati per descrivere gli insetti.

Come smarcarsi dall’automentalità che propone ogni attacco all’auto privata come un attacco alla libertà personale? Come frantumare la simbiosi fra automobilità e razionalità neoliberista? Cominciando dalle buone pratiche, per esempio quelle scelte dall’Active Travel Academy della University of Westminster nella The Road Collision Reporting Guidelines, una sorta di prontuario per i giornalisti e i fotografi che devono documentare gli incidenti stradali nella loro attività professionale. Perché, come diceva Nanni Moretti, le parole sono importanti.

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