di Jacopo Altobelli - 23 October 2023

Mattia De Marchi, dalla strada alla ghiaia senza ripensamenti

Un passato di ciclista Pro e il presente che lo vede continuamente vincere su sterrati e lunghe distanze. La sua fame di ghiaia cresce esattamente come il fenomeno gravel

Le due cose che gli vengono meglio sono pedalare e mangiare. E sono strettamente collegate dato che in un anno è capace di macinare 40mila chilometri, per un totale di quasi 1500 ore passate in sella alla bicicletta, che corrispondono alle calorie di circa un migliaio di pizze. Calorie che deve introdurre in qualche modo, ed è per questo che sui social pubblica così tante immagini di se stesso mentre pratica l’arte del reintegro: piadine, panini, spuntini in compagnia, in una foto si vede persino che ha legato una crostata di albicocche dietro allo zaino con del nastro adesivo (oggetto che non manca mai nel suo kit perché, dicono, ha il vizio di rompere tutto). Dopo aver solo assaggiato per qualche anno il professionismo su strada, la voracità per cui si sta facendo un nome è però ora soprattutto quella di strade bianche e avventure mozzafiato. Stiamo parlando di Mattia De Marchi, veneto, classe 1991, barba rossiccia e sguardo da spiritello: è sicuramente un riferimento per il mondo gravel adventure e un ciclismo tanto polveroso quanto veloce, che sa godersi la natura e la compagnia degli altri, ma non disdegna andare a più non posso per seminarli. Persino con copertoni da 50mm e borse da bikepacking. Sì anche con quelle Mattia corre davvero veloce. Infatti, la sua popolarità è letteralmente esplosa dopo aver vinto, nel 2021, l’Italy Divide, forse la gravel race più dura attualmente in Europa: 1300 km e 22mila metri di dislivello, che si corre in autosufficienza da Pompei al lago di Garda tagliando in due il Belpaese. Una gara così non si improvvisa. E in effetti la sua passione parte da lontano. Da quando a 9 anni, dopo aver zompettato sui campi da calcio senza troppo entusiasmo, un Natale rimane folgorato vedendo i completini da ciclismo dei suoi cuginetti (uno dei due, Alessandro, è lo stesso De Marchi che quest’anno al Giro ha vestito la maglia rosa). Con quelle tutine sgargianti e i caschetti, gli sembravano dei Power Rangers: capisce subito che quella era la strada che avrebbe dovuto percorrere. Mattia arriverà al professionismo, anche se per poco, riuscendo a vincere una tappa del Tour of China nel 2016. Poi un altro anno in Austria, e infine la delusione di essersi scontrato con un mondo contaminato da logiche poco chiare. Lascia. Si sente perso e abbandona la bicicletta per qualche tempo. Ma è solo il preludio della fioritura: “La bici ti insegna a soffrire, a essere paziente – scrive tra i suoi appunti, ritrovando la scintilla – La bici non ti regala niente ma ti insegna che tutto torna indietro. Non sono solo due ruote, la bici ti insegna a vivere”. Così la vita ricomincia, non più da “pro”, ma con ancora più entusiasmo: si mette alla prova con le grandi distanze, vince una gara estrema come l’Ultracycling Dolomitica, la vince di nuovo l’anno successivo; ma gli manca ancora qualcosa. Finché, quasi per caso, approda al fenomeno gravel. Esplode la sua energia (eccolo il Power Ranger). La gara che lo strega è in Marocco, da Marrakech a Rabat attraversando la catena dell’Atlante (qui mangia e beve il tè insieme ai Berberi), corre anche la Veneto Gravel e tutte le Jeroboam sulle montagne italiane, vince la corsa spagnola The Traka, a Girona, l’Italy Divide come già detto, e la Nova Eroica in Toscana, la Gravel Epic in Svizzera e la Transiberica Badlands, in Spagna, un’altra gara per gente tosta, con oltre 700 km e 15mila metri di dislivello che attraversa l’unico vero deserto dell’Europa continentale. Insomma, Mattia fa una scorpacciata continua di vittorie e la sua fame di ghiaia si alimenta gara dopo gara. Proprio su questo tema gli abbiamo voluto chiedere qualcosa in più, sia per rubargli qualche ricetta dalla sua esperienza, sia per aiutarci a capire se si tratti solo di una moda passeggera o di qualcosa destinato a durare a lungo.

Mattia, raccontaci meglio come sei approdato al mondo gravel

Dopo l’anno da stagista con l’Androni, non mi hanno rinnovato nonostante avessi vinto. Si vede che doveva andare così. Ho fatto un altro anno in Austria ma non è stato entusiasmante. Poi ho cominciato a fare delle gare lunghe su strada, tutto a spese mie, e sono andate molto bene. L’anno dopo ho cercato uno sponsor, c’era la Veneto Gravel e, anche grazie al negozio di bici Scavezzon di Mestre, 3T mi ha dato una Exploro per correrla. Ho fatto il tempo migliore. Così poi 3T mi ha lasciato la bici e ho iniziato a girare nella mia zona...”.

Da lì il gravel ti ha conquistato?

Quello che mi ha spinto a continuare con il gravel è che, nonostante uscissi nelle zone attorno a casa che conoscevo benissimo, ogni giorno sembrava di essere in un posto completamente nuovo, con panorami diversi. Ho iniziato a esplorare le montagne. Io abito in pianura, vicino a Venezia, così facevo una cinquantina di chilometri solo per raggiungere le salite, mi facevo un giro e tornavo a casa”.

Ci hai preso gusto insomma

L’inverno successivo, nel 2019, sono riuscito ad andare all’Atlas, insieme a un paio di amici. Sono andato per provare a vincerla, ma ho spaccato il manubrio e mi sono aperto un dito. E in un certo senso è stato meglio così”.

In che senso?

Il primo giorno, che sono stato in testa, in realtà non mi stavo divertendo, perché stavo andando troppo a blocco: testa bassa, non mi stavo godendo per niente il paesaggio. Avrei potuto essere in qualsiasi altro posto e non avrebbe fatto differenza. Il secondo giorno ho spaccato il manubrio e da lì ho rallentato, ho aspettato i miei amici Federico e Andrea, e abbiamo pedalato insieme. Da quel momento ho iniziato a godermi il Marocco, sono tornato a casa con un bagaglio di esperienze bellissimo che, se avessi continuato ad andare a tutta, non avrei mai avuto. Ho conosciuto un Paese e la sua gente. Ci siamo anche fermati in un campo tenda dove c’erano delle donne che tessevano e ci hanno offerto il tè. Sono tornato a casa contento”.

Se gravel è scoperta del territorio, contatto con la natura e con le persone, come si può sposare con la velocità e la performance di una competizione?

In Italia il gravel è nato come esplorazione, come modo diverso di andare in bici e sicuramente anche come occasione per togliersi dal traffico. Lo vedo nella mia zona, purtroppo la quantità di auto e camion è allucinante: ormai io ho paura di andare su strada. Il gravel è molto più sicuro sotto questo aspetto, soprattutto per chi si avvicina alla bici per la prima volta... Però alla fine, se uno ha uno spirito competitivo come me, prima o poi la parte agonistica viene fuori. In alcuni periodi voglio semplicemente pedalare, ma poi ho anche dei periodi nei quali ho voglia di mettermi alla prova, di andare a tutta, di fare fatica fino a sfinirmi. La vedo come una cosa sana. Alle granfondo la competizione sfugge un po’ di mano, però se la vena dell’agonismo è sana e pulita credo sia una cosa bella. Ed è quello che sta succedendo negli Stati Uniti: loro sono avanti di almeno due anni rispetto a noi. Prima o poi il mondo gravel avrà le sue gare importanti, in America ormai hanno un calendario molto ricco dove si corre praticamente ogni domenica. Anche in Europa ci si arriverà sicuramente, ormai l’esigenza viene da un mercato che sta letteralmente esplodendo. Basta non perdere la naturalezza originaria. Non sono d’accordo con chi ritiene che l’agonismo contaminerebbe il mondo gravel: penso che, se dosato nella misura giusta, ci stia. E ci arriveremo. Vorrei solo che non si perdesse lo spirito di condivisione tipico degli eventi gravel, dove anche quando c’è una gara, questa è inserita in un prima e un dopo dove si sta insieme. In un’ottica generale, credo che possano coesistere eventi dove non c’è l’agonismo, come ad esempio Jeroboam, ad altri come la Nova Eroica che mette insieme tratti cronometrati dove vai a tutta e tratti in cui ti godi il paesaggio e pedali chiacchierando con gli avversari. Infine, ci vogliono i format di gare dall’inizio alla fine, come potrebbero essere quelle del calendario Uci, purché siano sempre eventi di massa aperti a tutti".

Ora ti senti più un ciclista di strada o gravel?

Nasco stradista, quindi il richiamo della strada ogni tanto mi viene, ma il divertimento che provo facendo gravel e negli eventi gravel, nelle gare su strada non c’è. Tutte le persone che ho conosciuto in questi anni, le ho conosciute nel mondo degli eventi gravel”.

Spiegati meglio, cambia proprio l’atmosfera?

Alle gare su strada tu vai, corri e vieni via, la maggior parte delle volte è così. Non c’è un momento dove si è tutti insieme a parlarsi e scambiarsi idee. Ad una gara come la Nova Eroica invece arrivi il giorno prima, pranzi insieme, il giorno dopo fai la gara e dopo la gara resti lì: ti viene proprio spontaneo restare lì e stare insieme. È quello il valore aggiunto: c’è molta più condivisione. Il Bam è un altro evento che se me lo avessero chiesto cinque anni fa di andarci, non sarei mai andato. Mi sono dovuto ricredere. Sono due giorni in cui incontri qualsiasi tipo di persona, dall’agonista come posso essere io a quello che si fa i viaggi a 15 km all’ora, da quello che arriva con la bici da città a chi arriva a piedi perché ha sentito che il Bam è un raduno. Trovi qualsiasi cosa, ed è bello. Perché il ciclismo non è fatto solo dalle gare che vediamo alla tv. In quegli eventi trovi moltissima gente che non ha mai guardato una gara, magari non sanno nemmeno chi ha vinto il Tour. Per me che vengo da quel mondo, sembra assurdo; eppure, c’è talmente tanta gente che, pur amando la bici, non segue il professionismo. Da quando ho smesso di correre da professionista ho iniziato a vivere davvero la bici, in tutte le sue sfaccettature. Ma è chiaro che la vena agonistica che ho dentro non la potrò mai sopprimere, viene fuori”.

Da quello che hai detto sembra che il fenomeno gravel non sia una moda passeggera, cosa ne pensi?

Secondo me sta succedendo quello che è successo con la mountain bike. All’inizio alcuni marchi non ci hanno creduto, pensando fosse un fenomeno temporaneo, invece no. Sarà così per il gravel, anche per il fattore sicurezza di cui parlavo prima. Quando esco attorno a casa per andare verso le salite, faccio un chilometro di strada asfaltata e per il resto me ne vado fuoristrada, dove non ho il pensiero delle macchine: non è una cosa banale. La gente si metterà a scoprire sempre più percorsi anche nelle proprie zone: banalmente anche io ho scoperto le strade sterrate grazie all’app Komoot, cominciando a buttare giù delle tracce a caso. Le prime volte sbagli, ma poi impari, adesso riesco a farmi uscite completamente su sterrato. Ormai abbiamo davvero tutti gli strumenti per conoscere nuovi posti e stare in sicurezza”.

A proposito di sicurezza, cosa ti porti dietro di fondamentale durante le gare adventure come l’Atlas o l’Italy Divide?

È molto soggettivo, ci sono alcuni oggetti fondamentali che bisogna avere, come la coperta termica, o il bivybag in certe circostanze. Se becchi un temporale in zone remote, ti metti dentro al bivy e in qualche modo ti salvi. Una giacca antipioggia, sempre. Le salviettine deumidificate. Camere d’aria di scorta ovviamene (io sono abbastanza esagerato, me ne porto sempre tre, perché ho la fobia). Una camera d’aria in più mi fa stare tranquillo: dico sempre, se c’è una cosa che ti fa stare tranquillo, anche se è in più e prende posto, portala. All’Italy Divide il piumino avrei potuto lasciarlo a casa, però mi faceva stare tranquillo. Lo metto praticamente sempre, anche se so che la temperatura minima è 20 gradi. Di solito nella borsa dietro ci sta il piumino, una maglia in lana (perché la lana non ti fa sudare anche quando fa caldo). Una giacca antipioggia tipo il Fiandre di Sportful e poi la mantellina (sia per le discese se c’è aria, sia se piove). Nella parte anteriore, attaccato al manubrio, all’Italy Divide avevo solo il bivy, mentre all’Atlas mi ero portato anche il sacco a pelo e il materassino. Quindi davanti c’è la parte notte per quando ti fermi, e deve essere tutto impermeabile. Altra cosa che non ho mai portato, ma che inizierò a portare è il cuscino, quello gonfiabile, piccolissimo. All’Atlas avevo portato il ricambio, ma è totalmente inutile perché tu sei sempre sporco e in dieci minuti, anche se ti cambi, sei come prima”.

Un’altra domanda che ti faranno sempre è quanto ti fermi a dormire? Raccontaci la tua strategia.

All’Italy Divide ho tirato dritto la prima notte, poi ho pedalato tutto il giorno successivo e mi sono fermato più o meno alle dieci di sera e ho dormito tre ore. Anche la notte dopo ho dormito tre ore. Poi alle 22 del terzo giorno sono arrivato. Sto attento ai cicli del sonno, che sono di circa 90 minuti, in modo da non sprecare tempo prezioso. Quando posso cerco di dormire in agriturismi o B&B. Mentre in gare come l’Atlas non è possibile”.

Per mangiare invece come ti regoli?

All’Italy Divide ho imparato molte cose. Quando sei fresco puoi mangiare qualsiasi cosa e non hai problemi. Ma quando poi sei stanco, pedalare con il cibo sullo stomaco può diventare problematico. Un giorno avevo una fame pazzesca e ho mangiato due panini enormi con tipo mezzo chilo di mozzarella dentro, più cinque o sei palline di gelato. E sono partito: ho fatto un’ora e mezza che non andavo proprio avanti, tra l’altro con una salita bella dura. Per fortuna poi mi sono ripreso. Il secondo giorno alla sera ho mangiato due pizze e alla mattina sono partito bene senza problemi. Arrivato a un ostello ho fatto una colazione che valeva per tre e anche lì l’ho un po’ pagata quando sono ripartito. Devi essere bravo a scegliere il posto giusto. Quando è caldo vanno benissimo i gelati. Mi porto comunque anche del cibo di sicurezza, tipo barrette, anche se non le amo molto. L’ultimo giorno a mezzogiorno avevo mangiato un gelato, poi non ho mangiato nulla fino a sera, lì le barrette mi hanno aiutato. All’Atlas avevo sempre un panino di scorta, ma una sera non eravamo riusciti a trovare niente e la barretta ci ha permesso di fare colazione la mattina dopo. Sull’alimentazione, ogni volta impari qualcosa e aggiusti il tiro”.

Che consigli daresti a chi voglia spingere un po’ oltre i suoi limiti?

“Il primo consiglio, molto generale ma penso prezioso, è che se si vuole fare una cosa, non bisogna avere paura di sbagliare. Sento tanti che hanno paura a fare un giro molto lungo. Credo che l’importante sia partire, poi al limite non lo si finisce, si cerca di capire il perché e si riprova la volta successiva. L’altro consiglio è di non ossessionarsi: non pensare troppo alle tabelle di allenamento – anche io ogni tanto le seguo eh – ma bisogna trovare il giusto equilibrio, perché il mondo gravel è proprio l’occasione di fare qualcosa di diverso dal solito, ed è quello che dico sempre ai miei amici”.

Mentre un consiglio pratico che daresti magari riguardante la bici?

Direi attenzione alle gomme. Vedo troppa gente con le gomme gonfiate a 6 atmosfere e poi alla prima curva vanno per terra. Le gomme da gara gravel non devono essere dure, devono essere morbide. All’Italy Divide, dove ho usato 27.5*50, forse le avevo a 2 atmosfere. Preferisco di gran lunga avere un copertone più largo e morbido ma stare più tranquillo. Uso Pirelli Grail Cinturato M: ha una base centrale che anche se lo gonfi a 2 atm non spancia, quando sei su asfalto hai una riga interna centrale dove appoggia, ed è molto scorrevole. E poi sul gravel uso tubeless tutta la vita, perché levi tutti i problemi dovuti alle pizzicate”.

A livello mondiale, qual è la gara che sogni?

Un sogno nel cassetto è la Silk Road Mountain Race in Kirghizistan, ma bisogna prepararla bene, perché vorrei farla in coppia. Prima voglio fare l’Unbound in Kansas, negli Usa, che è la gara per antonomasia del mondo gravel”.

In Europa invece qual è la gara di riferimento secondo te?

Il Paese con la potenzialità maggiore per il gravel a livello geografico è probabilmente la Spagna, dove ci sono grandi spazi e poco traffico. Ci sono già gare interessanti come Badlands, The Traka o Ranxo, ma credo che un evento di riferimento simile alla Unbound in Europa ancora non esista. Ci vorrà tempo”.

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