di Mario Ciaccia - 20 January 2024

Storia delle notturne in bicicletta: giustizia per le torce!

Costano poco e hanno tanti pregi, ma l'industria ciclistica preferisce realizzare fari dedicati, con le batterie non sostituibili. Quindi, dopo gli articoli dedicati ai prodotti specifici, scopriamo il mondo delle torce, iniziando dai tempi antichi, quando le dinamo impazzavano

Quando ho iniziato ad andare in bicicletta, negli anni 80, non c’era la moda di pedalare di notte, probabilmente per colpa degli impianti di illuminazione dell’epoca, che erano del tipo a dinamo a bottiglia. La dinamo è fantastica perché fa a meno delle batterie, quindi dura in eterno e permette la totale autosufficienza, ma i sistemi dell’epoca avevano svariati difetti:

  • Stando fermi non funzionavano
  • Andando piano facevano pochissima luce
  • Andando forte ne facevano poca comunque
  • I cavi elettrici che collegavano la dinamo al faro anteriore e a quello posteriore erano delicati e si spezzavano
  • La rotella della dinamo faceva attrito sullo pneumatico
  • Se pioveva, la rotella slittava e faceva ancora meno luce
  • Il fianco dello pneumatico si usurava fino alle tele

Girando in bicicletta, era piuttosto facile pianificare i giri su asfalto facendo in modo che terminassero prima del tramonto. L’avvicinarsi delle ore piccole era vissuto con terrore.

Tuttavia, io ero già affascinato dal girare per la mia città, Milano, di notte. La combinazione di dinamo e lampioni mi permetteva di scorrazzare in lungo e in largo, godendomi l’assenza di traffico e le inquietanti atmosfere del crepuscolo, dei negozi chiusi, del nessuno in giro, dello strano effetto acustico che qualsiasi rumore produceva nelle vie deserte.

Il viaggio al buio che ci ha illuminati

Nell’agosto del 1990 io e mio fratello affrontammo un bel viaggio in bicicletta: Milano-Genova, nave, giro della Corsica, nave, Livorno-Pesaro. Una volta tornati in Italia facemmo tappa a Firenze, mancavano ancora 230 km a Pesaro e contavamo di impiegare due giorni per attraversare gli Appennini, dormendo dove capitava. Partimmo tardi, arrivammo ad Arezzo al tramonto e il piano era quello di dormire in qualche bosco sulla Foce di Scopetone, ma si levò una brezza rinfrescante, accompagnata da un bel tramonto. Era un momento bellissimo. Ci venne voglia di tirare diretti a Pesaro e fare quei 230 km in botta unica, senza fermarci per la nanna.

Per farci luce usavamo le pile frontali della Petzl, quelle da alpinismo. Le sensazioni che provammo nel viaggiare di notte erano fantastiche. Il paesaggio non lo vedevamo con gli occhi, ma lo percepivamo, come se lo sentissimo sulla pelle. Non c’era in giro nessuno. Pedalavamo appaiati, chiacchierando. I paesini erano addormentati, venivano in mente i film sugli zombie. Sembrava che la strada fosse tutta per noi, c’era una sensazione di intimità mai sentita durante il giorno. Alle due di notte eravamo sulla Bocca Serriola e pensammo bene di fare una sosta con fornellino e spaghettata. Fu poi bellissimo vedere l’alba dentro la gola del Furlo. Ci rinfrescammo i piedi nel fiume e andammo a fare colazione in un bar della zona vecchia di Fossombrone. Era tutto bellissimo! È una goduria usare la bicicletta in questo modo... Molto on the road, per dirla alla Kerouak. Quando però raccontammo agli amici quanto ci fosse piaciuto pedalare di notte, non andammo molto al di là delle scontate e ottuse risposte “Ma di notte non si vede niente” e “Di notte è pericoloso”.

Ci hanno pensato le mountain-bike

La diffidenza verso le pedalate sotto la luna è calata con l’avvento delle mountain-bike, per due motivi. Il primo è che con questo sport era più difficile pianificare giri che terminassero prima del buio. Era più probabile rompere qualcosa, perdersi nel bosco o scoprire che il sentiero indicato dalla mappa Kompass era franato o inesistente.

Clamorosa la nostra discesa dal Colle del Nivolet, versante valdostano, in cui scoprimmo – al tramonto – che la strada segnata sulla mappa al 200.000 del TCI non era mai stata costruita. Quando ci capitava di sforare The Golden Hour e ci toccava farci i boschi di notte, ce la cavavamo con le già citate pile frontali. Il secondo motivo è che già negli anni 80 si leggeva, sulle riviste dell’epoca, che negli Stati Uniti andava di moda fare gite di notte, per esplicita volontà dei partecipanti. Mi sconvolgeva che questi andassero a pedalare apposta in un orario che mi era stato insegnato fosse saggio sfuggire come la peste.

La paura del Lupo

Come si fa a descrivere il fascino di una notturna in bicicletta? Quando arriva il tramonto, noi esseri umani siamo pervasi dall’ancestrale timore verso le tenebre, per cui d’istinto siamo spaventati e sentiamo il bisogno di tornare a casa dalla Mamma. Questo sentimento, una volta che viene accettato ed addomesticato, fa quasi piacere, è un preludio sadico del grande spettacolo, come avere freddo prima della doccia calda. Una volta che il sole è tramontato del tutto si è ormai rassegnati a vivere immersi nel nero pece e così inizia l’avventura. Può essere città, campagna, bosco o un passo alpino: non si vede quasi niente, ma lo si percepisce, come dicevo prima si provano sensazioni particolari. Le notti sono fatte di luoghi, incontri, storie. Di lune piene che illuminano le montagne, di riflessi nell’acqua, di edifici spaventosi che emergono dal Nulla.

Sono fatte anche di pasti, perché è bellissimo fare spuntini durante la notte. Può essere un panettiere aperto alle quattro in centro città, un pandoro per festeggiare il Natale in una radura innevata o una pizzeria al tramonto, che faccia da armadio delle Cronache di Narnia tra il giorno e la notte.

Ma davvero non si vede nulla?

Non è vero. Non sempre. La luna piena, i riflessi, le luci in lontananza, qualcosa si riesce a vedere ed è molto suggestivo. Del resto le foto di questo servizio non sono tutte nere, no? Però c’è molto fascino anche quando c’è buio pesto. Si percepisce lo spazio intorno e il silenzio è impressionante.

È pericoloso

Certo che lo è. Non si vede nulla, quindi si va a sbattere. E poi le auto non ci vedono, quindi ci schiacciano. Anche andare in bici di giorno è pericoloso, purtroppo. Anche con la luce si cade e si finisce sotto alle auto. Quasi tutte le attività divertenti sono pericolose. Talvolta è pericoloso anche stare in casa (terremoti, alluvioni, trombe d’aria, ecc.). Con tutto questo intendiamo dire che andare di notte in bici appartiene a quella categoria di attività pericolose che da un lato sono insite nella natura di questa esistenza (qualsiasi cosa tu faccia, devi sempre aspettarti che succeda qualcosa di brutto) e dall’altro si possono controllare, per lo meno fino a un certo limite: fari efficienti, abbigliamento visibile e scelta di itinerari lontani dalle auto. Va anche detto, a vantaggio della notte, che il traffico cala quasi a livello zero.

Comparativa fari... di 30 anni fa

Nei primi anni 90 alcune aziende hanno creato dei fari a batterie apposta per le biciclette, dotati di luci alogene e dello stesso attacco a slitta, sul manubrio, dei ciclocomputer.

Vennero provati ordigni marchiati CatEye, Sanyo, Specialized e Zefal. Misurammo quanto si estendesse in avanti il fascio luminoso: Zefal solo quattro metri, Sanyo cinque, CatEye quindici, Specialized venticinque. Quest’ultimo era l’unico che si potesse usare con sicurezza nei boschi, in più la potenza era regolabile (sugli altri invece era fissa), però divorava quattro costosissime pile a mezza torcia: a piena potenza duravano due ore e mezza. Gli altri ne avevano due, ma i meno potenti duravano appena tre ore e mezza. Alla fine presi il Cat Eye, che faceva fuori due mezze torce in sette ore. Insieme a lui continuavo a usare la pila frontale della Petzl, che illuminava anche lei fino a 15 m e durava oltre sette ore. Prezzi: 38.000 lire il faro CatEye, 103.000 lire la torcia, 7.500 lire una mezza torcia. Con quello iniziai a fare le mie prime notturne, ma fu un disastro, avevo pochi soldi, non portavo mai le batterie di scorta, restavo spesso senza luci. Il kit che usavo io comunque illuminava molto poco, pur essendo una delle migliori soluzioni. Nei boschi, con quella roba, si sopravviveva. Divertirsi era un'altra cosa.

Arrivano i pipistrelli e le notturne urbane

Intorno al 1995 il ligure Luca Ciarlo ha inventato un raduno notturno chiamato Bat Biker che si svolgeva due volte all’anno, una in luglio e una in dicembre, con tendata annessa, sempre nello stesso percorso: la scalata da Altare alla Colla San Giacomo (SV), seguita dalla discesa su Mallare, il tutto in sterrato. Venivano chiamati dei gruppi non molto famosi a suonare (Elio e le Storie Tese!) e c’era anche un sedicenne che si esibiva saltando con la bici giù da un ponte: otto metri di volo dentro il fiume Bormida. Si chiamava Vittorio Brumotti.

Nacque una moda che, ancora oggi, trovo fantastica: dei megaraduni di biker che si ritrovavano ogni volta in una grande città e la giravano di notte, affrontando ostacoli e discese di vario genere, come se fossimo stati in un bosco. Della tappa di Vicenza ricordo il discesista Bruno Zanchi che si fece lo scalone della Basilica Palladiana scendendo sul corrimano di marmo, mentre a noi veniva l'infarto. Credo che avesse alzato un po' il gomito.

La mania per le notturne si diffuse, ma restava il problema dei fari: se volevi vederci davvero bene dovevi comprare i sistemi americani, come il BLT, il Turbocat e il Vista Lite. Robe da 500.000 lire. Fu così che in diversi ebbero l’idea di realizzare un accrocchio composto da un faro da appartamento, dicroico, alogeno, da 50 W collegato a una batteria da ciclomotore. Oggi con 40 euro ti porti a casa tutti e due. Il faro andava fissato sul manubrio, la batteria dentro il portaborraccia. Pregi: una luce spaziale, quasi da moto, che ti faceva fare i single-track in discesa come in pieno giorno. Difetti: dopo tre ore di goduria finiva tutto. Inoltre la batteria pesava tre chili. C’era una banda di Carpi (MO), il Ruplo, che si era messa a produrre in piccola serie questi accrocchi. Io ne comprai uno e l’ho usato parecchie volte, anche facendo notturne con loro. Non era certamente il sistema ideale ma, in questo modo, sono entrato negli anni Duemila.

La Rivoluzione, quella con la R maiuscola, quella che cambia la vita in meglio, è arrivata nel 2006, quando una ditta statunitense chiamata CREE ha realizzato il primo led adatto a lavorare nelle torce: un minuscolo quadratino da 130 lumen per watt, destinato a risolvere tutti i problemi di illuminazione delle biciclette. Otto anni dopo, i lumen per watt erano diventati già 300. Come spesso accade, all’inizio sono stati soltanto i militari a beneficiare di questa invenzione, sotto forma di un nuovo tipo di torcia composta da un tubo di alluminio aereonautico, anodizzato dentro e fuori, con un led a un’estremità e una batteria al litio ricaricabile dall’altra parte, chiamata 18650 (che oggi è alla base delle batterie delle e-bike). Tutte avevano diverse modalità (poca, media e massima potenza, segnale SOS a triplo lampo, strobo per autodifesa) e alcune pure lo zoom per concentrare o meno il fascio luminoso. Venivano dichiarate a prova di urto e pioggia, alcune addirittura a prova immersione! Erano robe da appena 150/200 grammi, batteria compresa, in grado di fare la stessa luce del mio vecchio accrocchio dicroico, ma con batterie che duravano tre ore a piena potenza e nove ore al minimo e si potevano cambiare con altre ricaricabili ogni volta che si esaurivano.

Solo che costavano sui 200 euro. Una cifra enorme, equivalente a 380.000 lire, ma il cambiamento che permettevano era epocale. Nel 2011 ho però scoperto che i cinesi si sono buttati a pesce su questa tipologia di prodotto. La prima che ho acquistato, una UltraFire, costava soltanto 50 euro e dichiarava un massimo di 500 lumen.

Aveva però un problema, che probabilmente era la spiegazione per cui costava un quarto della Maglite: il led aveva un certo gioco nel suo alloggio, tale per cui poteva spegnersi alla prima buca e riaccendersi allo scossone successivo. Così rischiavo di ammazzarmi!

Ma poi i prezzi sono precipitati e oggi se ne trovano di milioni di marche diverse, tutte simili esteticamente tra loro, quasi tutte cinesi. Dichiarano potenze luminose tra i 500 e i 2.000 lumen, ma sembrano numeri dati a casaccio. La Maglite come quella della foto prima oggi costa meno di 40 euro. Le più sofisticate si regolano automaticamente in base alla luce ambientale.

Nel frattempo l’industria ciclistica ha realizzato dei prodotti specifici sfruttando la tecnologia dei led e ne abbiamo parlato anche nei giorni scorsi. Rispetto alle torce in questione hanno un’estetica più sintonizzata con il look delle biciclette, perché le torce, pur con gli attacchi dedicati, sanno un po’ di accrocchio. Ma la stragrande maggior parte utilizza batterie ricaricabili sigillate all’interno, che durano più o meno tre ore, per cui una volta che si scaricano sei fritto. Se ne fanno così tante, vuol dire che la maggior parte dei ciclisti usa i fari soltanto per brevi tragitti e non per intere notturne su e giù per i boschi: è normale. Ma sarebbe stato così complicato permettere la sostituzione della batteria? Per questo motivo non è così strano che il sottoscritto continui ad andare di torce. Anzi, a un certo punto m'è venuta la mania. Col fatto che costavano poco, ero curioso di provarne tante, così ne ho comprate un po'.

Usandone così tante ho capito diverse cose. Intanto che i lumen che dichiarano sono veramente messi a caso. Più o meno, fanno tutte la stessa luce e durano più o meno tre ore alla massima potenza.

Tutte quante funzionano sotto la pioggia. Qualcuna ha lo zoom, per scegliere se avere il fascio luminoso concentrato al centro e più profondo, o più esteso ai lati ma meno efficace in profondità. Devo dire che quelle che non lo hanno vanno benissimo così come sono, per andare in bici. A fare la differenza sono l'affidabilità e i comandi. Il modo di uso è questo: per risparmiare al massimo le batterie, si usano a diversi livelli, a seconda del percorso. In città, con i lampioni, si mette la potenza al minimo. In salita, con il buio pesto, basta metà. In discesa va messa al massimo. Ebbene, esistono diversi sistemi per selezionare i vari livelli e dato che la cosa va fatta pedalando, senza guardare, magari con i guanti invernali, è importante che i comandi siano pratici, molto pratici. E non tutte possono vantare tale qualità. Per esempio, sulle UltraFire il comando era un minuscolo pulsante gommoso posto su un fianco, difficile da trovare e da premere con i guanti. Oltretutto, su una delle due torce s'è rotto quasi subito.

La tensione a cui lavorano è sempre di 3,7 V, sia le 18650, sia le 21700. La Ledlenser 21700 in foto pesa 70 g e dichiara 4.800 mAh per 17,8 Wh. Si trova a prezzi intorno ai 20/22 euro. Le altre tre variano. Quella più normale, prezzo a parte, è la Fenix da 3.500 mAh e 12,6 Wh, che pesa 49 g e costa la bellezza di 25/35 euro, anche se dura tre ore, come le altre. Quella blu è una UltraFire da appena 7 euro ed è misteriosa. Ne avevo quattro, tutte dichiaranti 3.600 mAh. Ma tre pesano 38 g e si scaricano dopo 3 ore, l'altra pesa 46 g e dura il doppio. Non ha senso. Credo che sia caduta nel Tevere, come Claudio Santamaria nel film Lo chiamavano Jeeg Robot. Poi c'è la truffaldina, la Microcosmos, che dichiara 4.800 mAh (che pare sia un valore irraggiungibile sulle 18650), dura meno delle altre e pesa 36 g.

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