22 June 2015

Il Giro del mondo in bici per i diversabili

L'impresa, organizzata dall'associazione onlus Travel For Aid, è durata 1.960 giorni e ha portato Matteo Tricarico a pedalare in solitaria per 70.000 chilometri attraverso un totale di 36 Paesi in Asia, Europa e nelle due Americhe

Il giro del mondo in bici per i diversabili

Vi raccontiamo la storia di Matteo Tricarico, che ha concluso il progetto sportivo-umanitario del “Giro del mondo in bicicletta per i diversabili”. L'impresa, organizzata dall'associazione onlus Travel For Aid, è durata 1.960 giorni e ha portato il viaggiatore manfredoniano a pedalare in solitaria per 70.000 chilometri attraverso un totale di 36 Paesi in Asia, Europa e nelle due Americhe.

 

La finalità del progetto

Il progetto si è proposto di attirare l’attenzione dei media e del pubblico sulle condizioni dei bambini diversabili nei paesi in via di sviluppo. Per raggiungere quest'obbiettivo umanitario la Travel For Aid ha collaborato con 15 organizzazioni che gestiscono scuole e istituti di riabilitazione psicomotori lungo il cammino. Matteo, oltre a visitare queste strutture, ha anche prestato servizio di volontariato impegnandosi direttamente in scuole, orfanotrofi e campagne d'informazione.

 

Il bilancio finale del progetto?

“Quest’avventura, nata dal sogno di unire la passione per la bicicletta con l’attività di volontariato a favore dei diversabili che svolgo da vari anni, man mano si è trasformata in qualcosa di collettivo che ha attratto intorno a sé centinaia di persone che virtualmente mi hanno seguito inviandomi entusiastici messaggi di supporto. Perciò, tanto l’aspetto sportivo quanto quello umanitario sono andati ben oltre le mie più rosee aspettative alla partenza, sia per il numero di patrocini morali concessomi dalle istituzioni sia per le organizzazioni umanitarie che hanno aderito al progetto. A questo bisogna aggiungere che, fortunatamente, non ho avuto nessun incidente di percorso”.

 

Quali sono stati i momenti più significativi?

“Credo che uno dei vantaggi di viaggiare in bicicletta sia il fatto di essere a contatto diretto con i locali, principalmente in aree rurali dove raramente passano viaggiatori occidentali. Soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, sono stato testimone della generosità disinteressata di questa gente che meno possiede e più ti offre. Comunque, i momenti più toccanti sono state le visite ai centri per i bambini diversabili e i periodi di volontariato che mi hanno lasciato un segno indelebile nella memoria e nella coscienza. Sono rimasto scioccato scoprendo che buona parte degli assistiti hanno contratto disabilità a causa di malattie derivate da malnutrizione e scarsa igiene, soprattutto nel Sud-est asiatico e nei paesi andini del Sud-America. Ho visto tanta sofferenza ma altrettanta speranza ed impegno di migliorare le condizioni di vita dei diversabili portandoli ad un livello di autosufficienza. Ho anche imparato che fornendo i giusti strumenti e particolari attenzioni si può veramente alleviare molte condizioni di disabilità ovunque nel mondo”.

 

Un viaggio non solo tra luoghi e culture diverse, ma un cammino tra le multiformi realtà del dolore, come hai vissuto le diverse tappe?

“Per l’itinerario che ho scelto, in fatto di culture e diversità naturalistiche, il viaggio non poteva essere più vario e ricco. Sono passato dalle millenarie civilizzazioni asiatiche e europee, crogiolo e protagoniste dello sviluppo culturale umano, alle terre del grande nord di Alaska e Canada, dove la natura è ancora la vera sovrana indiscussa e l'uomo un insignificante comparsa. Ho visitato le magnifiche vestigia delle civilizzazioni precolombiane in centro e sud America, stroncate dall'impietoso corso degli eventi storici, per finire con le interminabili tundre della Patagonia, dove la parola “isolamento” ha il suo significato più vero. Nonostante tanta ricchezza di tradizioni e paesaggi, molti di questi paesi sono anche tra i più poveri al mondo, dove i diversamente abili sono gli ultimi degli ultimi. Alla fine, l’aspetto umanitario del progetto ha assunto un’importanza personale molto superiore rispetto al viaggio di scoperta e visita delle attrazioni locali. Mi ha portato ad un intenso arricchimento spirituale e a un più profondo senso della compassione”.

 

Ci sono state delle situazioni difficili in cui avresti abbandonato tutto?

“Non sono mai arrivato alla disperazione totale di gettare la spugna, anche se procedendo faticosamente a passo d’uomo sui ripidi pendii delle Ande o pedalando contro il vento della Patagonia mi sono pentito di aver scelto quel tragitto. Talvolta mi sono sentito veramente solo, specialmente nelle aree scarsamente popolate dell'Iran e dell'Alaska settentrionale, mi sarebbe piaciuto avere qualcuno con me, ma ho retto  bene l’aspetto psicologico della relativa solitudine. Ho superato i momenti di maggiore difficoltà fermandomi per alcuni giorni così da riprendere ben riposato e ripartendo la mattina mi sono detto che stavo vivendo un'esperienza magnifica che valeva qualsiasi sofferenza”.

 

Quali sono i programmi per il futuro?

2Anche se l’aspetto sportivo del progetto si è concluso, quello umanitario continuerà per i prossimi tre mesi durante i quali avrò una serie di incontri con le associazioni partner e con scolaresche in tutta Italia per raccontare la mia esperienza e mostrare altre realtà che sono lontane geograficamente ma che riguardano tutti da vicino. Poi a settembre tornerò a lavorare nel Sud-est asiatico, perché mi sono reso conto che il viaggio deve essere una parentesi nell'ambito di una vita normale altrimenti esso stesso si trasforma in una routine e quindi non si apprezza più. Sto cominciando ad accarezzare l'idea di fare un altro giro del mondo questa volta in barca a vela, magari con un equipaggio di disabili, perché la bicicletta è un mezzo limitato visto che si può utilizzare solo su un terzo del globo terraqueo, ma per questo nuovo progetto ci sentiamo nel 2020...”.

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