Rifugio Venini, la Norvegia a 90 km da Milano - Episodio uno

Se andate lassù, scattate una foto e dite che siete in un fiordo norvegese, vi crederanno. L'occasione di fare questa salita ce l'ha data una Yamaha che non siamo riusciti a spedire in Giordania

Abbiamo ricevuto l’invito per un giro di dieci giorni in Giordania, ovviamente in bicicletta. Abbiamo deciso di inviare laggiù il nostro fotoreporter Tommaso Pini e lui, dopo un bel “Volentieri”, ha spiegato che ha dei problemi alla schiena. “Non conosco le tappe e i dislivelli, non vorrei essere una palla al piede per gli altri partecipanti e compromettere il servizio, sarebbe meglio andare con una e-bike”. Va bene. Abbiamo così chiesto a Yamaha una Wabash RT, ovvero la sua gravel a pedalata assistita. La bicicletta è arrivata in redazione con tanto di batteria di scorta e sembrava tutto a posto, quando sono saltati fuori i soliti problemi legati al rischio di esplosioni delle batterie al litio durante i voli aerei. Ci hanno parlato di limiti, strettamente legati ai voli verso la Giordania, di 32 A e 160 Wh, quando la Wabash ce l’ha da 36 A e 500 Wh. Quindi abbiamo organizzato un cargo speciale autorizzato dal Jordan Tourism Board. Tutto pronto, quindi eravamo in redazione ad aspettare lo spedizioniere ma, pochi minuti prima che arrivasse, una telefonata ci ha freddato: le-bike che arrivano in dogana rimangono lì, le bici elettriche non sono ancora regolamentate, rischiate grosso, non vi conviene spedire la vostra. Per cui Pini ha dovuto… pedalare sul serio e laggiù in Giordania Cycling Jordan gli ha fornito una front suspended della Orbea.

Ci siamo quindi ritrovati con una e-bike Yamaha delusa e frustrata perché non sarebbe andata a Petra, per cui le abbiamo fatto fare una bella gita. 

Poco male: era l'occasione per provare la Yamaha Wabash RT che avevamo in redazione, e avremmo puntato sull'esotico dietro casa. E abbiamo pensato che quella gravel fosse l’ideale per il Rifugio Venini (CO): è un anello di 40 km con tanta salita, altrettanta discesa e qualche tratto sterrato. "Paola, se ci andiamo adesso, in febbraio, in pieno inverno, sarà un'esperienza mistica. Il rifugio sarà sicuramente chiuso, essendo ricoperto da metri di neve. Ma vuoi che qualcuno o qualcosa - escursionisti, 4x4, motoslitta, scialpinisti, ciaspolatori, fatbiker - non siano andati comunque lassù, pressando lo strato nevoso a nostro vantaggio? Andiamoci!".

Nonostante sia un percorso interessante, non mi pare sia mai stato oggetto di qualche gara importante di ciclismo e il motivo mi pare evidente: è vero che le biciclette sono larghe mezzo metro, ma una strada, affinché sia adatta a una gara, deve poter ospitare le auto al seguito e il pubblico in delirio. Quella che sale al rifugio è strettissima, per quasi tutta la sua lunghezza, in più è priva di guard rail e con orridi burroni sulla destra, per cui nessun organizzatore ha voglia di prendersi certe responsabilità.

Qui siamo al Tour de France. Sul Venini, tutta la porzione sinistra della foto finirebbe in fondo al burrone. E anche qualche ciclista.

Quindi Paola, dopo essersi sparata il Muro di Sormano con la muscolare, adesso si sarebbe fatta una gita in carrozza, avendo la Yamaha Wabash il motore. Purtroppo la misura era quella adatta a Pini – la M – mentre lei è una tipa da S, per cui la postura in sella non era il massimo, specie in discesa.

Il Venini si trova sulla Selletta del Monte Galbiga, a quota 1.576 m, su una cresta a picco tra i laghi di Como e di Lugano, che sono alti, rispettivamente, 200 e 275 m sul mare. 

Detto in altre parole, sono piazzati immensamente più in basso. Da lassù si vedono come fiordi norvegesi, che serpeggiano attraverso la Lombardia (già, perché del Lugano si vedono le sponde italiane, quelle di Porlezza, descritte dal Fogazzaro nel Piccolo mondo antico). Invece del Lario si vede il ramo di Como, quello hollywoodiano: laggiù infatti si trovano la villa di George Clooney e quella del Balbianello, dove vennero girate scene del film Guerre Stellari. Il rifugio si trova tra il Monte Galbiga (1.698 m) e il Tremezzo (1.700 m), dove passa la Linea Cadorna. Questa, che più correttamente si chiamerebbe Fortificazione Frontiera Nord, era una linea difensiva realizzata tra il 1899 e il 1918 per prevenire eventuali attacchi dalla Svizzera. Che era un Paese neutrale, ma vatti a fidare: tutti cambiano idea. Oppure no, ma si temevano anche attacchi di Francia, Germania ed Austria attraverso la Svizzera, col permesso di questa o meno. Per cui sono state create delle trincee e delle fortezze lungo un arco che spazia, per 280 km, tra la Valle d'Aosta (Monte Dolent) e la Valtellina (Passo Stelvio) e sono quasi tutte raggiungibili e visitabili ancora oggi. Nel caso del Venini, le postazioni servivano per controllare l'ingresso di eventuali truppe dalla Svizzera alla costa occidentale del Lario, attraverso il Piano di Porlezza.

Le trincee sul Monte Tremezzo.

La Linea Cadorna si rivelò completamente inutile. Nessuna Nazione decise di attaccarci passando per la Svizzera. Tuttavia, a guerra finita, venne comunque costruita una caserma militare sulla Selletta del Monte Galbiga. Nel 1926 era terminata. Durante la Seconda Guerra Mondiale venne distrutta e, dalle sue macerie, venne costruito un rifugio, dedicato a Corrado e Giulio Venini, padre e figlio, accomunati dallo stesso destino: si sono meritati la medaglia d'oro al valor militare, morendo entrambi eroicamente, uno durante la Prima Guerra Mondiale (1916) e l'altro nella Campagna di Grecia (1941).

Legata a questo posto c'è una storia - tra le tante - che mi piace un sacco: durante l'estate del 1992, esattamente la Notte di San Lorenzo, un gruppo di appartenenti al Gruppo Astrofili Lariani andò sulla spiaggia di Lenno a caccia di stelle cadenti ed ebbero l'idea di costruire un osservatorio astronomico in cima ad una delle montagne sovrastanti. Il Comune di Lenno era d'accordo, purché l'osservatorio avesse un impatto minimo sul paesaggio. Si decise, così, di costruire l'osservatorio dentro una delle trincee della linea Cadorna, a pochissima distanza dal Rifugio Venini.

Ed eccolo qua. Ѐ stato terminato nel 2002. Qualche anno fa, però, il Gruppo Astrofili Lariani lo ha abbandonato e, da allora, è chiuso e inutilizzato. Peccato.

Ho un ricordo stressante di una salita che ho fatto in bicicletta, quassù, nel giugno del 1992. Era quasi l’una del pomeriggio e stavo scaldando un piatto di cous cous quando il mio amico Markospino mi telefonò (col telefono fisso, col filo, che faceva drin drin) per invitarmi a scalare il Monte Tremezzo immediatamente, seduta stante. “Ti passo a prendere con l’auto”. “Ma questa sera siamo a cena da Skianna”. “Facciamo in fretta, dai”. Si trattava di andare da Milano ad Argegno con l’auto (65 km), scalare il Tremezzo (28 km di salita, 1.485 m di dislivello, 5,3% di pendenza media, ma con gli ultimi 500 m al 19%, su erba), scendere in mulattiera fino a Griante (10 km al 12%), pedalare da lì fino ad Argegno (11 km), caricare la bici in auto e tornare a Milano. Fare la doccia e andare da Skianna. Il tutto in sei ore: sarebbero bastate? Sì, bastarono.

Il profilo della salita pubblicato sul sito www.salite.ch. Livello di difficoltà 1060 punti. Manca però la tratta su erba per la vetta del Monte Tremezzo, essendo questo sito 100% stradale.

In quel periodo eravamo specializzati in gite “racing subdole”, che adesso aborro. In pratica, nel mio gruppo di amici ciascuno vedeva l’altro come un rivale da schiacciare ed umiliare, ma sempre facendo finta che fossero gite innocue. Oggi mi perdonerei di tale passato se, ai tempi, avessimo detto “Facciamo una gara. Scanniamoci fino all’ultimo sangue”. Invece no, nessuno parlava di ‘sta roba orrenda, eravamo una massa di ipocriti. “Facciamo una gita”. La tattica di Markospino era quella di attaccare subito come un pazzo, perché sapeva che io andavo a gasolio, nel senso che resistevo più a lungo, ma senza acuti. Per cui ogni volta che accelerava per staccarmi io non avevo altra scelta che andare ancora più forte, superarlo e rallentare subito dopo, per farlo stare buono. In questo modo passava tutta la salita, ma che due palle! Ai tempi mi piaceva già fotografare, ma lasciavo le reflex a casa. Non si facevano soste contemplative. Non si pedalava appaiati parlando di cose amene, foss’anche la f..., ma si andava in fila indiana, con quello dietro che bestemmiava in silenzio contro quello davanti.

In questo modo impiegammo un paio d’ore per arrivare in cima e ci mettemmo a cercare l’inizio della discesa, perché non l’avevamo mai fatta. Sapevamo, in base alla mappa della Kompass – nel 1992 non c’erano i Gps – che avremmo dovuto proseguire oltre la vetta e scendere fino alla Bocchetta di Tremezzo, alta 1.600 m, da dove partiva la mulattiera per Griante.

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Su quel valico c’è un villaggio, l’Alpe Tremezzo, che è un capolavoro di isolamento. Alla sua destra si vede il Monte Crocione (1.641 m). 

Ma io, a quel villaggio, non ci arrivai. Sulla vetta del Tremezzo c’erano delle mucche, cosa che ci lasciava indifferenti, essendo una presenza normale sulle montagne.

Qua le ho fotografate sulla Linea Cadorna, sopra il Fiordo di Como.

Ma, lassù sul Tremezzo, something went wrong perché una di quelle mucche si staccò dalla mandria e mi attaccò. Ero incredulo: a parte i tori nei film sulle corride, non avevo mai visto un bovino attaccare l’uomo. Mi puntava con la testa bassa e io persi la testa dal panico, per cui mi buttai sul pendio lungo la linea di massima pendenza. Con OpenMtbMaps si può misurare: un prato in discesa lungo cento metri, con una pendenza media del 54%, la stessa di una pista da sci nera. Avrei paura a farlo con una mtb biammortizzata da downhill, figuriamoci con la bici che avevo quel pomeriggio. Infatti ero nel mio periodo di fissa per John Tomac (ne ho parlato anche nella mia Storia poco scientifica del gravel) e avevo montato, sulla mia Specialized Stumpjumper Team del 1987, dotata di forcella rigida, una piega da corsa strada. In pianura e salita era una goduria, ma in discesa mi si spaccavano le mani. Anche perché la geometria delle leve freno era ottimizzata per i freni da strada e non per l’accoppiata cantilever/u-brake della mia mountain bike. Comunque rimasi in sella, ma avevo le mani doloranti per lo sforzo che avevo fatto per strizzare quelle leve, dato che i freni, visti con il metro moderno, erano davvero modesti.

Questo era soltanto l'inizio...

Ci aspettavano 10 km di mulattiera in discesa, con 49 tornanti e una pendenza media del 12%. Questa roba era peggio dello Zoncolan, in più era sterrata-sassosa.

In certi tratti questa mulattiera era stretta, molto stretta, praticamente un sentiero esposto. Il mio amico aveva una Trek 7000 in alluminio. Vidi che colpiva una pietra con la ruota anteriore: lo sterzo ruotò di colpo di 45° e Markospino finì di sotto. Vedevo la sua bicicletta atterrare di manubrio sul prato e il suo mitico ciclocomputer giallo fluo della Avocet staccarsi e schizzare per aria. Lui rimbalzava da un cespuglio all’altro, fino a fermarsi un sacco di metri sotto. Questa scena l’avevo già vista nei primi anni 80, da ragazzini, sciando insieme sulla pista nera della Sighignola, poco distante dal Monte Tremezzo, sempre in Valle Intelvi. La pista era chiusa per troppo ghiaccio, noi andammo a farla lo stesso e Markospino finì di sotto. Incredibile ma vero, in nessuno dei due casi s’è fatto male. Ha recuperato la Trek, ha riattaccato l’Avocet ed è tornato sul sentiero, per ripartire come se nulla fosse. Ma se vi dico che fu una gita stressante, spero che sarete d’accordo.

Dopo 20 tornanti strettissimi abbiamo perso quasi 600 m di dislivello, ma c’è venuto il panico perché la mulattiera finiva nel Nulla. Sembrava che si schiantasse contro una parete di roccia. Cominciava ad essere tardi, eravamo stanchi e non avevamo voglia di rifarci quei 600 m di dislivello al contrario. Ma poi, avvicinandoci, scoprimmo che un effetto ottico aveva nascosto il buco nero dell’ingresso di un tunnel militare, scavato nella roccia e lungo centosessanta metri. Dovevamo infilarci lì dentro. Il resto della discesa andò bene, ma io arrivai a valle che non mi sentivo più le mani. A sera eravamo a cena a casa di Skianna, docciati e profumati come principesse.

Il giorno dopo la mano destra iniziò a gonfiarsi in maniera abnorme, specie sul palmo. Faceva un male terribile, da non dormirci la notte. Non riuscivo a piegare le dita, che sembravano dieci salsicce. Mi ero iscritto al Jazz Band Rally, gara per mtb con road-book che attraversava il Lago di Garda dal nord al sud, ma non potei andarci. I medici mi parlavano di qualsiasi cosa, compresa l’artrite reumatoide. Finì che uno di loro mi iniettò un liquido bianco e schiumoso dentro la mano, che si sgonfiò. Nessuno mi seppe dire la causa. Uno disse che avrebbe potuto essere una vecchia frattura del 1984 che si era risvegliata. Io credo che la causa sia stata fare quei 10 km ripidissimi in discesa, frenando dall’inizio alla fine, con leve freno da corsa strada abbinate a freni (scarsi) da mtb. La cosa m’è successa un’altra volta, 13 anni dopo, durante un viaggio in moto lungo 5.000 km. Poi basta (per ora: e son passati altri 19 anni).

Questa storia pulp m’è venuta in mente quando ho visto Paola iniziare a salire verso il Venini con quel manubrio. 

Ma il suo caso è diverso, ovviamente: lei ha potenti freni a disco, leve dedicate e non intende affrontare discese al 50%.

Ci sono milioni di persone che scendono le strade alpine con i dropbar di bdc e gravel e il giorno dopo non hanno la mano destra gonfia come un cocomero, neanche se si calano dal Mortirolo.

Da San Fedele Intelvi, quota 740 m, la classica salita al Venini è quella che passa per il paesino di Pigra. Sale in costa alla montagna, dapprima nel bosco. All’Alpe Colonno (1.320 m) si trova un bel rifugio panoramico, ideale per fare una sosta se non state salendo in modalità “racing subdola”. Segue una discesa da 1,5 km e 90 m di dislivello. Io odio le discese in mezzo alle salite, perché ti usurpano di un lavoro già fatto, però qui c’è un cambio di versante e ci si ritrova a scendere in una valletta chiusa, a nord, dal Monte Galbiga, sul quale sorge il rifugio Venini. È un panorama di panettoni erbosi lisci, protesi verso l’alto, che fa passare in secondo piano la scocciatura di stare perdendo quota. Questa discesa termina sul Passo di Boffalora (1.220 m) dove si trovano un laghetto e un rifugio.

Vedete che paesaggio bucolico? In questo caso però lo stiamo guardando dal Venini. 1. Boffalora; 2. Rifugio Boffalora con laghetto; 3. Cima della Duaria 1.446 m; 4. Sasso Gordona 1.410 m; 5. là sotto si trova l'Alpe di Colonno.

Dal Passo di Boffalora si riprende a salire decisi: gli ultimi 4 km di salita sono al 9% e sono anche i più spettacolari, dato che alla nostra destra c’è uno scivolo ripidissimo che porta diretto al lago di Como.

È una salita fantastica, con panorami spaziali, ma è anche molto pericolosa. La strada è aperta al traffico fino alla vetta e il rifugio è una meta ambita da quanti vogliono passare un week end camminando poco, ma a vista di panorami straordinari e mangiando bene. Per cui, sabato e domenica è pieno di gente che va su con l’auto. Ma la strada è davvero stretta e priva di parapetti. Se due auto si incrociano, quella rivolta verso valle deve stare attentissima a non rotolare fin dentro al lago. Si vedono scene da Himalaya o Bolivia. In un contesto simile, come fa un povero ciclista a non venire sportellato brutalmente verso l’abisso, se pedala in salita, cioè sulla corsia esposta? C’è un problema simile in Corsica, che si risolve facendo il giro dell’isola in senso orario.

In auto sembra di essere in quei documentari girati sull'Himalaya, dove i camion passano al pelo e, spesso e volentieri, volano di sotto.

Qua abbiamo trovato un altro modo: prendere una strada alternativa, che permette di bypassare tutta la parte precedente al Passo di Boffalora. Si riesce, infatti, ad arrivare a tale valico passando per un’altra valle, quella del fiume Lirone, che sale perpendicolarmente alla strada pericolosa e si immette in lei sbucando all’improvviso, come uno squadrone di pellerossa quando assalta la diligenza. Inizia sempre da San Fedele Intelvi ma, mentre quella di Pigra si arrampica sulla costa sud del Monte Costone (1.441 m), quella meno pericolosa lo fa passando a nord di tale montagna, dove si trovano le tre frazioni di Ponna. Anche questa è stretta, ma i tratti burronati sono di meno e, soprattutto, qui c’è molto meno traffico.

Guardando la mappa di OpenMtbMaps si vedono i due percorsi, in azzurro, che partono da San Fedele Intelvi, prendono direzioni diverse ma si unificano sul Passo di Boffalora.

Ci sarebbe, poi, una terza strada che permette di arrivare a Boffalora, ma è fuori di testa. Quando, nella quarta puntata sul Muro di Sormano, ho citato altre salite bestiali poco note ai ciclisti, mi sono clamorosamente dimenticato una delle più folli e bastarde, quella che arriva a Boffalora salendo da Ossuccio. Ha il fondo quasi tutto cementato o selciato, quindi in teoria sarebbe fattibile con una bici da corsa strada. In teoria. Perché ha delle pendenze davvero spaventose. Io l’ho fatta solo in discesa, pochi anni fa e non credevo a quello che vedevo. L’intera salita misura 5,3 km di lunghezza, parte dalle rive del lago e supera un dislivello di 1.050 m, per una pendenza media del 20%. In pratica è lunga tre volte il muro di Sormano, ma con una pendenza media decisamente superiore. Solo che la parte iniziale e quella finale non sono così ripide: è al centro che fa ancora più paura. Per 3,7 km la media è del 25%, con un tratto al 31% e uno al… 48%. Poiché questi dati li sto ricavando analizzando le curve di livello con OpenMtbMap, oserei pensare che ci sia qualche imprecisione, perché 48% è roba da pista rossa sugli sci. Dovrei andare e farci un servizio ma, col mio livello di allenamento, penso di non essere in grado di salire su di lì neanche con una e-bike. E di sicuro non proporrò questa mattanza alla povera Paolina, neanche con il suo 30x34. Ma un salto lì ce lo si dovrà fare, prima o poi.

Visione dal Venini della valle dentro cui si snoda quella salita luciferina. Quella roba bianca che vedete non sono nuvole, ma i fumi di zolfo dell'Inferno.

Abbigliamento utilizzato

Per questo itinerario abbiamo utilizzato un kit gravel Santini composto da maglia Stone, gilet Trail, bib Gravel, guanti MTB, calze Stone, maglia intima Piuma.

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