I luoghi del ciclismo: Colle dell'Agnello

È uno dei più alti passi delle Alpi, terzo in classifica nella sua categoria. Lo si raggiunge con una salita lunghissima, che parte direttamente dalla Pianura Padana e arriva in Paradiso

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Non so bene perché ma ho sempre visto il Colle dell’Agnello come un totem. Una salita-totem. Non ho una spiegazione razionale del perché, so solo che semplicemente, dal primo giorno che ho avuto modo di solcare le sue arcigne pendenze, a pelle, per me, è sempre stato così: un totem. Certo, localizzazione e fattezze sono ben diverse da quelle dei totem nordamericani (alti anche fino a 25 metri e solitamente in legno di cedro) di cui possiamo aver sentito parlare a scuola o scorto qualche immagine in guide di viaggio o documentari tv ma, a ben guardare, forse l’associazione non è del tutto peregrina. Se infatti, tra le tante funzioni che assolveva per le popolazioni indigene, un totem era allo stesso tempo spirito guardiano, protettore della comunità e albero genealogico del clan che l’aveva fatto sapientemente erigere, in egual maniera il Colle dell’Agnello oggi, impervio e imponente dall’alto dei suoi 2.744 m d’altitudine, da un lato veglia sugli abitanti della Valle Varaita facendo spesso da schermo naturale alle perturbazioni d’Oltralpe e dall’altro, tramite le vicende che lo hanno visto protagonista tanto nell’antichità quanto nel passato più recente, consente di apprendere e ricostruire la storia di queste zone.

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Un maestoso guardiano

La figura del Colle dell’Agnello, il più alto valico alpino transfrontaliero (nonché il terzo europeo dietro a Iseran e Stelvio), dunque ha sempre segnato e continua ogni giorno a segnare la vita di questo montuoso angolo del Piemonte sudoccidentale. Anche senza essere vista, la sua massiccia presenza in qualche modo riecheggia dappertutto, tutti sanno che, anche senza citarlo esplicitamente, lassù, silenzioso, discreto e inscalfibile, il Colle chiude e contemporaneamente dischiude la Valle, filtra, ostruisce e benedice gli ingressi, sottrae ossigeno e mozza i respiri, incute timore e suggerisce cautela da qualunque versante lo si approcci. Ecco che allora, coi maestosi contorni del suo vallone, la natura brulla dei suoi pendii e le linee aguzze delle creste rocciose che lo contornano, il Colle dell’Agnello è una sorta di baluardo tutelare riconoscibile e riconosciuto, un luogo sopra tutti e tutto che può regalare bellezza come sofferenza e che perciò esige rispetto e attenzione. Anche per questo, forse, in fin dei conti, non è un’eresia considerare il Colle dell’Agnello alla stregua di un totem, un oggetto ricco di simbolismo e significati che in passato, in virtù di ciò che rappresentava e dell’importanza che rivestiva, per essere realizzato spingeva i nativi ad affidarsi al miglior scultore disponibile su piazza. Costui, per completare l’opera commissionatagli, doveva far ricorso a tutte le proprie abilità e poteva impiegare fino ad un anno per terminare il lavoro richiestogli.

Salita ambita dai ciclisti

Realizzare la strada per il Colle dell’Agnello ha certamente richiesto più tempo (dal maggio 1970 all’agosto 1973) ma il risultato, in termini di ingegnosità, cura dei particolari e spettacolarità, non è stato inferiore. Molto meno invece ha impiegato la salita a diventare terreno di caccia dei pedalatori più audaci e duro scoglio da superare all’interno di gare ciclistiche visto che già nel 1971, prima ancora che venisse ufficialmente asfaltato, il Colle venne inserito come GPM all’interno della terza frazione del Tour de l’Avenir (famosa gara a tappe francese della categoria Under 23) divenendo preda dello svedese Sven-Ake Nilsson. Per vedere i professionisti cimentarsi con le pendenze di quest’erta alpina si è dovuto però attendere il 1994 e, per la precisione, il Giro d’Italia di quell’anno, un’edizione che, con la scalata nel corso della 20ª tappa, mise ufficialmente il Colle sulla mappa del grande ciclismo dando il la ai successivi transiti da parte della Corsa Rosa nel 2000 (primo in vetta Josè Jaime Gonzalez), 2007 (Yoan Le Boulanger) e 2016 e ai due passaggi del Tour de France del 2008 (GPM a Egoi Martinez) e del 2011 (Maxim Iglinski). Uno dopo l’altro, questi avvenimenti hanno contribuito a creare e ad accrescere sempre più la leggenda dell’Agnello. Su tutti però, una menzione particolare merita l’ultima scalata affrontata dal Giro d’Italia, quella del 27 maggio 2016, giorno in cui il compianto Michele Scarponi andò a valicare in solitaria il Gran Premio della Montagna prima di mettersi al servizio di Vincenzo Nibali verso il traguardo di Risoul, contribuendo egregiamente in questo modo all’incredibile rimonta in classifica e, infine, alla conquista della maglia rosa dello “Squalo dello Stretto”. Per ricordare le gesta di quel giorno e, più in generale, per omaggiare la generosa figura dello scalatore marchigiano, sullo slargo in vetta al Colle, dal giugno 2018, vi è una statua in legno (realizzata dall’artigiano Barba Brisiu) che lo ricorda e, in un certo qual senso, lega ancor più indissolubilmente il suo nome a quello di questa impervia salita cuneese, rammentando a tutti, ogni qual volta qualcuno la incroci, che una parte, piccola ma pur sempre una parte della sua anima vive imperitura lungo i rettilinei e i tornanti che conducono ai 2.744 metri dello scollinamento.

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Michele Scarponi sul Colle dell'Agnello

Le due fasi della scalata

La raffigurazione dell’”Aquila di Filottrano”, dunque, è scolpita indelebilmente nel totem-Agnello ed è una di quelle in grado, inconsciamente, di ispirare di più chi, con meno pedigree ma ugual cuore, decide di misurarsi con le pendenze di una salita che consta di due sezioni ben precise. La prima comincia a Sampeyre (anche se la strada in maniera lieve inizia a salire già da Venasca, una ventina di chilometri più a valle) e si conclude dopo 22,5 km di ingannevoli falsipiani, tratti di respiro e strappi esigenti (su tutti quello all’uscita dell’abitato di Casteldelfino che spesso viene considerato come sede di partenza ufficiale della salita) alla dogana di Chianale. Qui inizia quello che universalmente viene considerato il “vero” Colle dell’Agnello, ovvero 9,3 chilometri al 9,6% di pendenza media che, in 913 metri di dislivello, portano fino ai 2.744 metri di una cima che, nascosta alla vista prima dalla vegetazione nei 2,8 km iniziali e poi da arcigne conformazioni rocciose, non si riesce a inquadrare mai. O quasi. Perché, facendoci caso, quando gli abeti a 2.100 metri d’altitudine si diradano, più o meno all’altezza del Rifugio Carlo Emanuele III, la sommità, seppur lontana e splendidamente camuffata, si potrebbe anche intravedere. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo poiché quel punto coincide anche col tratto di massima pendenza (14%) ed è difficile che gli occhi, le gambe e tutto il corpo siano lucidi al punto da esibirsi in azioni diverse dal lottare contro la pendenza e assorbire la maggior quantità possibile d’ossigeno. Proprio la carenza di quest’ultimo, assieme al dislivello costante, è uno dei fattori che, metro dopo metro, più incide e porta la pedalata a perdere la sua usuale efficacia e rotondità. Approfittare dei brevissimi e rari tratti di respiro (il tornante attorno all’inconfondibile Rocio Skiapà e il corto pianoro vicino alla baita del margaro) non è dunque opzionale, pena il ritrovarsi presto con due zavorranti menhir al posto delle gambe e trascinarsi in un contorto zigzagare per tutti gli ultimi 3 chilometri. Passato il Lago del Pic d’Asti, ad ogni modo, il profumo della cima, a prescindere dalle traiettorie che si stanno disegnando sull’asfalto, diventa sempre più nitido e corroborante e, man mano che si prosegue (di solito lentamente), lo si vuole e lo si cerca, ancora e ancora. Per afferrarlo con ogni poro si chiamano in causa allora tutte le fibre e tutti i muscoli del corpo, da quelli delle braccia che hanno iniziato ormai a percepire il cambio di temperatura a quelli del naso fino alla bocca, sempre più aperta, dilatata, spalancata, ma non solo per l’aria a questo punto percettibilmente più rarefatta. Di fronte allo scenario che si apre negli ultimi 2 chilometri, infatti, non è possibile restare indifferenti e la bocca, spesso, è la prima a reagire con un riflesso, magari spontaneo e impercettibile, al meraviglioso spettacolo che si para davanti alle pupille: il Dente dell’Agnello e la Punta dell’Alp da una parte, il Pan di Zucchero, il Pic d’Asti, la Cima delle Rossette e il Monviso dall’altra si dispiegano possenti tutt’attorno, sembrano quasi volerti cingere in un abbraccio e dirti “dai che ci sei, il culmine è lì” e in tutta la loro manifesta e limpida monumentalità ti fanno sentire piccolo e allo stesso tempo grato di esser arrivato fin a quel punto, grato di poter ammirare un simile quadro, grato di essere vivo. Diventare, sentirsi parte e interiorizzare questo paesaggio fa sì che, nell’ultimo chilometro, la contentezza inizi a serpeggiare dentro di noi, che le poche forze rimaste ricevano un insperato boost e che la bocca, fino a poco prima deformata dalla spasmodica ricerca di ossigeno, si rilassi e accenni a un sorriso progressivamente sempre più marcato. Con l’avvicinarsi dell’ultimo tornante, quella gioia interiore, contenuta pudicamente fino a quel momento, divampa e ti ringalluzzisce per l’ultimo sprint, quello che non di rado ti fa valicare la cima con entusiasmo e, senza neanche accorgertene, ti proietta subito oltre il cippo che demarca il confine tra Italia e Francia.

A quel punto, riguadagnata la calma, abbassati i battiti e indossato qualcosa per coprirsi, lo sguardo finisce per esser immancabilmente rapito dalla magnificenza circostante e così, muovendosi a 360 gradi, ecco che incrocia la lignea figura di Scarponi, riconosce la fitta e battuta rete di sentieri incisa nelle pietraie, realizza quanto siano puntuti e fantasiosamente lavorati dagli elementi i picchi montuosi, individua i profili di due tenere marmotte che si muovono irrequiete nell’erba, accompagna quasi ipnotizzato il lento e affannoso incedere di altre biciclette, segue il volo elegante di un gipeto riconoscendo in sostanza, una dopo l’altra, nient’altro che le figure e gli elementi che compongono, contraddistinguono e rendono magico questo totem per scalatori: il totem-Agnello.

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