La raffigurazione dell’”Aquila di Filottrano”, dunque, è scolpita indelebilmente nel totem-Agnello ed è una di quelle in grado, inconsciamente, di ispirare di più chi, con meno pedigree ma ugual cuore, decide di misurarsi con le pendenze di una salita che consta di due sezioni ben precise. La prima comincia a Sampeyre (anche se la strada in maniera lieve inizia a salire già da Venasca, una ventina di chilometri più a valle) e si conclude dopo 22,5 km di ingannevoli falsipiani, tratti di respiro e strappi esigenti (su tutti quello all’uscita dell’abitato di Casteldelfino che spesso viene considerato come sede di partenza ufficiale della salita) alla dogana di Chianale. Qui inizia quello che universalmente viene considerato il “vero” Colle dell’Agnello, ovvero 9,3 chilometri al 9,6% di pendenza media che, in 913 metri di dislivello, portano fino ai 2.744 metri di una cima che, nascosta alla vista prima dalla vegetazione nei 2,8 km iniziali e poi da arcigne conformazioni rocciose, non si riesce a inquadrare mai. O quasi. Perché, facendoci caso, quando gli abeti a 2.100 metri d’altitudine si diradano, più o meno all’altezza del Rifugio Carlo Emanuele III, la sommità, seppur lontana e splendidamente camuffata, si potrebbe anche intravedere. Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo poiché quel punto coincide anche col tratto di massima pendenza (14%) ed è difficile che gli occhi, le gambe e tutto il corpo siano lucidi al punto da esibirsi in azioni diverse dal lottare contro la pendenza e assorbire la maggior quantità possibile d’ossigeno. Proprio la carenza di quest’ultimo, assieme al dislivello costante, è uno dei fattori che, metro dopo metro, più incide e porta la pedalata a perdere la sua usuale efficacia e rotondità. Approfittare dei brevissimi e rari tratti di respiro (il tornante attorno all’inconfondibile Rocio Skiapà e il corto pianoro vicino alla baita del margaro) non è dunque opzionale, pena il ritrovarsi presto con due zavorranti menhir al posto delle gambe e trascinarsi in un contorto zigzagare per tutti gli ultimi 3 chilometri. Passato il Lago del Pic d’Asti, ad ogni modo, il profumo della cima, a prescindere dalle traiettorie che si stanno disegnando sull’asfalto, diventa sempre più nitido e corroborante e, man mano che si prosegue (di solito lentamente), lo si vuole e lo si cerca, ancora e ancora. Per afferrarlo con ogni poro si chiamano in causa allora tutte le fibre e tutti i muscoli del corpo, da quelli delle braccia che hanno iniziato ormai a percepire il cambio di temperatura a quelli del naso fino alla bocca, sempre più aperta, dilatata, spalancata, ma non solo per l’aria a questo punto percettibilmente più rarefatta. Di fronte allo scenario che si apre negli ultimi 2 chilometri, infatti, non è possibile restare indifferenti e la bocca, spesso, è la prima a reagire con un riflesso, magari spontaneo e impercettibile, al meraviglioso spettacolo che si para davanti alle pupille: il Dente dell’Agnello e la Punta dell’Alp da una parte, il Pan di Zucchero, il Pic d’Asti, la Cima delle Rossette e il Monviso dall’altra si dispiegano possenti tutt’attorno, sembrano quasi volerti cingere in un abbraccio e dirti “dai che ci sei, il culmine è lì” e in tutta la loro manifesta e limpida monumentalità ti fanno sentire piccolo e allo stesso tempo grato di esser arrivato fin a quel punto, grato di poter ammirare un simile quadro, grato di essere vivo. Diventare, sentirsi parte e interiorizzare questo paesaggio fa sì che, nell’ultimo chilometro, la contentezza inizi a serpeggiare dentro di noi, che le poche forze rimaste ricevano un insperato boost e che la bocca, fino a poco prima deformata dalla spasmodica ricerca di ossigeno, si rilassi e accenni a un sorriso progressivamente sempre più marcato. Con l’avvicinarsi dell’ultimo tornante, quella gioia interiore, contenuta pudicamente fino a quel momento, divampa e ti ringalluzzisce per l’ultimo sprint, quello che non di rado ti fa valicare la cima con entusiasmo e, senza neanche accorgertene, ti proietta subito oltre il cippo che demarca il confine tra Italia e Francia.
A quel punto, riguadagnata la calma, abbassati i battiti e indossato qualcosa per coprirsi, lo sguardo finisce per esser immancabilmente rapito dalla magnificenza circostante e così, muovendosi a 360 gradi, ecco che incrocia la lignea figura di Scarponi, riconosce la fitta e battuta rete di sentieri incisa nelle pietraie, realizza quanto siano puntuti e fantasiosamente lavorati dagli elementi i picchi montuosi, individua i profili di due tenere marmotte che si muovono irrequiete nell’erba, accompagna quasi ipnotizzato il lento e affannoso incedere di altre biciclette, segue il volo elegante di un gipeto riconoscendo in sostanza, una dopo l’altra, nient’altro che le figure e gli elementi che compongono, contraddistinguono e rendono magico questo totem per scalatori: il totem-Agnello.