A prescindere dalle mansioni di cui, di volta in volta, sarà investito, quel che è sicuro è che tifosi e addetti ai lavori dovranno abituarsi a riconoscere i tratti e imparare a pronunciare il cognome di un corridore proveniente dalla Mongolia, una terra lontana, di cui, ciclisticamente e non, magari si sa poco ma che, grazie a Jambaljamts, potremmo aver modo di scoprire. Lui, intanto, non si tira indietro e quando deve parlare di come sia vissuta la bicicletta alle sue latitudini tende a farlo con un’apprezzabile onestà.
“Non è propriamente un Paese per il ciclismo, siamo più attenti alla lotta, al judo, alla boxe, al tiro a segno e ad altri sport. Siamo pochi, solo 3,5 milioni e fondamentalmente siamo concentrati nella capitale, che è a 1.350 metri sul livello del mare. Le strade attorno sono sostanzialmente pianeggianti, non ci sono grandi montagne, giusto piccole colline. Durante l’anno la maggior parte dei giorni c’è vento, la bella stagione, quella in cui pedalare, va da aprile a fine settembre mentre a ottobre inizia a fare freddo. Nonostante tutto però il ciclismo sta diventando più popolare: abbiamo una federazione molto attiva che organizza eventi di vario tipo ogni fine settimana, molte corse locali e questo contribuisce a rendere questo sport più diffuso in Mongolia. La gente sa poi cos'è il ciclismo anche a causa del traffico e dei tanti ingorghi che ci sono nella capitale, dove vive un milione e mezzo di persone e in cui ora molte di più scelgono la bicicletta per spostarsi”.
Molti più ragazzi quindi, in Mongolia, stanno decidendo di inforcare le loro biciclette: qualcuno per andare a lavorare o a scuola, altri per svagarsi nel tempo libero, altri per sfogare il proprio lato competitivo-agonistico e qualcuno per provare se, facendone la propria ragione di vita, come Jambaljamts, si può provare a sognare in grande. Proprio a loro, il ragazzo di Ulaanbaatar però tiene a rivolgere un pensiero e un accorato consiglio: un conto è prendere parte alle gare organizzate nella propria città, nella propria regione, nel proprio Paese o appena fuori, un conto è tentare la via del professionismo e lo sbarco stabile in una realtà europea.
“Quando diventi corridore in Mongolia, non sai bene cosa sia il vero ciclismo perché sei davvero lontano. Pedali e pedali per trovare un posto in una squadra Continental e basta. Se ti alleni bene arriva anche il risultato, altrimenti no. Penso che uno debba comprendere cosa succede nel ciclismo internazionale, documentarsi su come poter migliorare se stesso e trovarsi un buon allenatore”.
Jambaljamts l’ha fatto e, come tiene a ribadire deciso lui stesso, l’ha fatto seguendo un mantra ben preciso “Hard work pays off”, il duro lavoro paga. Ovviamente ci è voluto del tempo per vedere i frutti di questo lavoro, assaporare la ricompensa per tutte le rinunce fatte negli anni, godersi il prodotto di tutto il sudore versato in quei ritiri a volte messi in piedi autonomamente, a volte approntati dalla sua squadra d’appartenenza come quello in Cina nel 2013 dove, per sua stessa ammissione, “è davvero migliorato” e “ha imparato come andare in salita e in discesa”. È lavorando, continuando a credere nel proprio sogno, appoggiandosi a persone d’esperienza e concedendo il giusto spazio ad altro (e nel suo caso l’altro sono soprattutto le drifting car giapponesi delle quali, grazie a un amico nipponico, possiede tre esemplari e sulle quali durante l’off-season ogni tanto si concede qualche sgasata in circuito) che Sainbayar oggi può dire di aver mantenuto la promessa ed esser riuscito in qualcosa in cui pochi avrebbero creduto: diventare professionista. È lui oggi il volto nuovo del ciclismo mongolo (movimento che in passato ha avuto i suoi principali esponenti nell’iridato junior 2016 nello scratch Batsaikhany Tegshbayar e nel 9 volte campione nazionale Jamsrangiin Ölzii-Orshikh), un volto orgoglioso e determinato che conosce i suoi limiti ma anche dove vuole arrivare.