Paris-Roubaix Challenge: la "bellissima idiozia" di pedalare su quelle maledette pietre

Tutti pazzi per le pietre della Roubaix. La Challenge aperta ai cicloamatori che sabato 6 aprile ha preceduto di un giorno la corsa Élite maschile (e solo di qualche ora quella femminile) ha registrato per la prima volta il sold out di iscrizioni. Tanti gli italiani presenti e da alcuni di loro ci siamo fatti raccontare cosa significa pedalare sul pavè

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Sembra passata un'era geologica dal piovoso autunno del 2021, quando nella prima edizione post Covid, circa 350 coraggiosi prendevano il via sotto un cielo plumbeo da Denain - una sessantina di chilometri a sud del velodromo più celebre al mondo - per l'unico percorso disponibile di quella Paris-Roubaix Challenge imbastita all'ultimo momento tra mille difficoltà. Ma anche in precedenza, la versione amatoriale della Regina delle Classiche, era sempre rimasta all'ombra della sua cuginetta di buona famiglia: la Ronde van Vlaanderen Cyclo, il Giro delle Fiandre che passato in mano al colosso della comunicazione Golazo, aveva saputo trasformare la corsa del popolo in un business remunerativo, incassando tra l'altro il tutto esaurito dei cicloamatori con grande anticipo.
Ora le parti si sono invertite. Il Fiandre gode di ottima salute ma non fa più il sold out, pur attestandosi vicino ai 15mila partecipanti. La Roubaix chiude invece le iscrizioni sui tre percorsi poco oltre i 6mila, per ragioni di sicurezza. Questo dato impressionante è stato raggiunto, grazie anche alla sempre maggiore diffusione di biciclette gravel. Fino al 2019 le difficoltà del percorso e le incognite sul tipo di bici da utilizzare sui settori di pavé scoraggiavano i più, con gli iscritti in crescita ma mai oltre le 3500 unità.
Qualche numero sull'edizione 2024 della Challenge: 6.073 gli accreditati alla partenza di cui 5.578 partiti. Di questi il 22% ha affrontato il percorso da 70 km (partenza da Roubaix e ingresso sul percorso a Mons-en-Pévèle, dunque 11 settori di pietre), il 47% quello da 145 (da Roubaix l'anello portava ad entrare poco prima della Foresta di Arenberg, settore 19), mentre il 31% è partito da Busigny, sciroppandosi gli ultimi 175 km del percorso ufficiale e tutti e 29 i settori di pavé. Inoltre, quanto alla provenienza dei suoi partecipanti, la Challenge ha visto iscritti cicloamatori provenienti da 59 Paesi differenti. Dei 6.073 il 44% è di nazionalità francese. Tra gli stranieri il podio vede i belgi sul gradino più alto (14%), davanti ad olandesi e britannici (10%). L'Italia è al quarto posto per numero di presenze (5%), con circa 300 partecipanti. Le donne rappresentano a loro volta il 5% degli iscritti ed il 70% del gruppo non aveva mai preso parte alla Challenge in precedenza.

Noi di Ciclismo.it abbiamo fatto la nostra parte di pedalatori curiosi sul percorso lungo della Challenge. Abbiamo visionato tutto quanto era possibile, raccolto pareri e testimonianze dagli italiani che hanno affrontato una fatica unica nel suo genere, assolutamente atipica nel panorama delle due ruote. Ce la siamo presa comoda perché all'estero il cronometro passa regolarmente in secondo piano, di fronte alla straordinarietà dell'evento. Siamo rimasti in piedi anche quando qualche settore era una patina di fango dal quale spuntava qua e là qualche pietra, abbiamo frenato largamente in anticipo sulla famigerata chicane, ci siamo portati al traguardo i dolori muscolari e le stimmate ai palmi delle mani, simbolo della sofferenza sulle pietre e delle vibrazioni trasmesse sul manubrio. Abbiamo visto scivolate causa precaria aderenza sul fondo limaccioso e cadute perché ogni pietra è un'insidia. Copertoni che saltano, manubri e selle che si piegano, canotti reggisella che si spezzano. Per quanto ci riguarda non abbiamo saltato un solo ristoro e raggiunto il velodromo con la consapevolezza che sarebbe stata una lunga giornata sui pedali. Serviva pazienza e l'abbiamo utilizzata tutta, più o meno alla pari col serbatoio delle energie. Ma ci siamo divertiti e non cambieremmo la Challenge con le salite più iconiche d'Europa. Ad ognuno la fatica che più gli si confà.

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Per il giornalista trentino della Rai Silvano Ploner «andare incontro all'attesa sofferenza è una bellissima idiozia, una forma di masochismo per mettersi alla prova testando fino a che punto una persona è appassionata di ciclismo. La Challenge - prosegue Ploner - è l'elogio incondizionato delle contraddizioni a pedale. Ci si iscrive pensando di vivere una giornata alla Vdp e poi il ciclocomputer ti rivela velocità medie sul pavé infinitesimali rispetto a quelle dei Pro. Ci si iscrive per godere il fascino del pavé e ci si ritrova a maledirlo per le vesciche alle mani, cercando un varco tra i canalini accanto alle pietre. Ci si iscrive perché la Roubaix è la Regina delle Classiche e poi di classico ti resta solo un dolore generalizzato su tutto il corpo. Si parte in bici da corsa e si passa tutto il tempo a sognare una mountain bike. Solo una cosa non è contradditoria a Roubaix: la felicità e quel pensiero di costante soddisfazione che ti torna periodicamente in mente dopo averla portata a termine».

Andrea Bianchini, 37enne mantovano, vive a Bruxelles dove lavora per l'Unione Europea ed è letteralmente stregato dalle corse del Nord, di cui fa incetta nelle loro versioni per amatori. «È una cyclosportif (una Granfondo non competitiva, per intenderci) che resta nelle gambe, nelle mani e, soprattutto, nel cuore - riflette -. Quei 55,7 km del pavé più sporco e malmesso che si possa immaginare affascinano tanto, ma chilometro dopo chilometro finiscono per logorare. Da Mons-en-Pévèle in avanti il conto alla rovescia dei settori mancanti si fa lento e ad ogni nuovo tratto il dolori alle mani, agli avambracci e ai cervicali si fanno più insistenti. A Camphin-en-Pévèle, settore numero 5, si arriva a giurare che non ci si ricascherà, che questa sarà l'ultima volta che ci si iscrive, che questa cosa della sveglia alle 3, la lunga trasferta in pullman per raggiungere la partenza di Busigny, il fango o la polvere, oppure entrambi...no, "non s'ha da fare", come il più celebre dei matrimoni non andati a buon fine. Però ormai mancano meno di 20 chilometri...Sotto con il Carrefour de l'Arbre, allora, Gruson, Hem e l'Espace Crupelandt, che ormai non si sentono nemmeno più, tanto che le terminazioni nervose sono andate a farsi benedire e l'entusiasmo lenisce le fatiche meglio di ogni forma di doping. E allora via verso quel mezzo giro di velodromo che lascia sempre la pelle d'oca e lava via le sofferenze di giornata. Il fango e la polvere no, quelli non li lava via di certo. Ma l'emozione di entrare in quel velodromo già colmo di pubblico e che sa di storia non meno dei settori affromtati già fa cambiare idea... Toccherà iscriversi un'altra volta. Solo perché la Trouée è ormai lontana un centinaio di chilometri. Quella no, su quella non si cambia idea! È crudele, disumana, è la prova provata che quelli che corrono la domenica sono diversi. Le persone normali lì arrancano anche solo per arrivare in fondo. E non hanno bisogno di alcuna chicane».

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Il giornalista Rai Silvano Ploner.

Italo Portesan è un personaggio pittoresco. Dichiara prima il peso - 100 chili - poi la statura, che è sotto il metro e 70. Non è certo giovanissimo ma il coraggio non gli difetta. Quest'anno ha vissuto la sua decima Roubaix: le ha fatte tutte dal 2014, considerando che quella del 2020 è finita in soffitta per la pandemia. Qualcuno l'avrà notato sul percorso, non solo per la sgargiante maglia tricolore ma perché pedalava nientemeno che su una Graziella. «Ho fatto tre volte il lungo, quattro il medio e per tre volte il percorso corto - apre l'abum dei ricordi -. Soprattutto ho usato tutti i tipi di bici in mio possesso: da una Decathlon da 300 euro alla Ridley Fenix in carbonio. passando anche per una Bianchi del 1980 in versione Eroica, nel 2021, l'anno di Colbrelli. Per questa edizione mi ero iscritto alla 145 km, la Foresta di Arenberg è il mio tratto preferito. Purtroppo a causa di una fibrillazione atriale in corso ed essendo sotto cura non ho ricevuto il certificato agonistico ma solo quello per cicloturista. All'estero non serve il certificato ma le raccomandazioni dei medici vanno seguiti sempre. O quasi. Quindi ho corso i 70 km del corto ma per rendere più carino il giro ho usato una Graziella da 20" recuperata dalla discarica e rimessa in ordine, nonché dipinta con il tricolore. Con il movimento centrale che si svitava in continuazione è stata dura ma avendo con me una borsa dei ferri completa non ho incontrato grossi problemi a stringere il dado dopo ogni tratto di pavé. Fantastico il Carrefour de l'Arbre. L'ho fatto a palla - strizza l'occhio -, per quello che permetteva la bici...» E forse anche le gambe.

Stefano Besio ha 50 anni, è genovese ma vive in Svizzera. Per l'occasione si è avventurato sul percorso da 145 km. «Vivo all’estero da una decina d'anni e la bici mi ha permesso di mantenere il legame con il mio amico Michele, con cui condivido la passione per il ciclismo sin da ragazzo - racconta con orgoglio -. Ci siamo riproposti di fare ogni anno una Classica Monumento, così dopo la Sanremo (purtroppo senza Michele) ed il Fiandre, quest’anno siamo partiti per Roubaix. Inizialmente ero molto spaventato dall’idea di farmi male, ma ad ogni settore prendevo sempre maggiore confidenza. Alla fine ero euforico ed aggredivo il pavé con le energie rimaste. Mi ero detto: “falla una volta, poi non ci torni più”. Oggi sto già pensando di ritornarci al più presto!».

Il 58enne Stefano Calascioni ha vissuto la trasferta con la sua squadra, la Freedom Bike Viareggio. «Questa è un'esperienza bellssima, trascorsa insieme a tanti amici ciclisti provenienti da ogni parte del mondo - dice -. Corsa dura, ma con tanto cuore è stata portata a termine. Entrare nel velodromo, poi. è un'emozione incredibile e un sogno che si realizza. Lì mi aspettavano i miei primi tifosi: mia moglie Sandra e il cane Sheyla».

Emotivamente forte e anche un po' triste l'avventura in cui si è imbattuto Marco Verminetti, lombardo di 55 anni trapiantato da tempo in Sardegna. «Dopo circa 10 chilometri dallo start sono stato coinvolto in una brutta caduta unitamente ad altri corridori - ci spiega -. La funzioinalità della bici era compromessa, che fare? Provo a rialzarmi e a ripartire con la ruota posteriore in pessime condizioni, così come il deragliatore e con forti dolori al polso sinistro. Ma si sa, la prima cosa che vogliamo fare è rialzarci e ripartire. Così mi rimetto in sella ma la bici è troppo danneggiata. Percorro un'altra decina di chilometri e trovo un furgone con due persone: marito e moglie, lui è un meccanico. Pur facendo loro presente che non avevo soldi con me e senza naturalmente sapere chi fossi, mi hanno dato assistenza andando addirittura a casa per portarmi una ruota che mi permettesse di continuare la prova. Sistemata alla bene-e-meglio la bici e ringraziando infinitamente queste due magnifiche persone, promettevo loro che in serata sarei passato a riportare loro la ruota e pagare il disturbo. Settore dopo settore, col polso sinistro che peggiorava, i pantaloncini strappati e con solo due rapporti a mia disposizione, entro a Roubaix e imbocco il viale che porta al velodromo, venendo incitato da alcuni bambini. Mi si è aperto il cuore, così regalo loro la borraccia, facendoli felici. Entrato nel velodromo l’emozione è immensa come se fosse sempre la prima volta. Purtroppo durante la notte ignoti malfattori rubavano la mia bici e quella del mio amico dalla nostra autovettura parcheggiata all’interno dell’hotel, peraltro con videocamere ovunque. Però, come spesso accade, all’Inferno del Nord trovi anche persone fantastiche come Sebastien (il meccanico) e la moglie (Joelle): dopo averli contattati e riportato loro la ruota con cui senza la quale non avrei potuto continuare il mio percorso verso Roubaix, mi invitavano a cena presentandoci tante altri amici straordinari e raccontandomi tante storie ed episodi da loro vissuti durante le varie edizioni della Parigi Roubaix».

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Italo Portesan in sella alla sua Graziella.

Esperienza indimenticabile anche per Sebastiano Vavassori, 42 anni. Bergamasco d'origine, vive da un decennio vicino a Monza. «Da qualche anno condivido la passione per il ciclismo con alcuni amici che mi portano verso il Nord ad inizio primavera- confida -. Così, dopo il Giro delle Fiandre nel 2018 e 2022 e la Liegi-Bastogne-Liegi l’anno scorso, non poteva mancare nel nostro palmares la Regina delle Classiche, la Parigi-Roubaix! In quattro del Velo Club Oggiono (con me anche Stefano Lago, Davide Frigerio e Filippo Vismara) abbiamo deciso che questo era l’anno buono per sfidare l’Inferno del Nord e così ci siamo iscritti al percorso lungo. Pur sapendo da qualche anno cosa significhi pedalare sulle pietre, avendo già fatto il Fiandre, ho sempre temuto la Roubaix per il chilometraggio sui ciottoli e per la fama che quel pavé si porta dietro da sempre: insidioso, sconnesso, viscido, brutale. Per questo motivo ho preferito affrontare quest’esperienza con una bicicletta gravel, la Cannondale Topstone 2, che possiedo da un annetto. Anche Davide ha fatto la stessa scelta. Stefano e Filippo, invece, non hanno voluto rinunciare alla loro bici da corsa. La nostra memorabile Roubaix si è rivelata bella e dura proprio come l’avevo immaginata: bella grazie ad un percorso mai noioso, anzi mi sembrava di essere in un parco divertimenti… Dura perché, quando in un settore da quattro stelle poco dopo la Foresta di Arenberg ho sentito le mani diventare sempre più infuocate, ho compreso che forse stavo sbagliando qualcosa nell’impugnatura del manubrio. Da lì in poi mani basse per avere qualche sollecitazione in meno e non andare a gravare troppo su quelle vesciche che già andavano formandosi. Che la Foresta fosse terribile lo si sapeva, ma non pensavo di trovare una così grande distanza tra le pietre...una cosa pazzesca! A Mons-en-Pévèle il vento laterale mi ha spaccato, infine il trittico Camphin-en- Pévèle–Carrefour de L’Arbre–Gruson ha dato la mazzata definitiva a braccia e mani, mentre le gambe c’erano ancora, anche se fortunatamente il grosso era ormai alle spalle. Stanco ma soddisfatto mi sono avvicinato al velodromo: entrare, fare mezzo giro di pista, tagliare il traguardo…, insomma, è un concentrato di emozioni difficile da descrivere, ma sintetizzabile in una sola parola: leggenda! Un ringraziamento doveroso va alla mia compagna Francesca che da anni “sopporta” questa mia passione e ai miei compagni di avventura con i quali ho condiviso quest’indimenticabile calata all’Inferno… E ora via con la prossima!».

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Sebastiano Vavassori nel velodromo.

Il più giovane del campione di italiani sottoposti alla nostra intervista è il savonese Stefano Pepe, 34 anni. Anch'egli ha optato per il percorso più lungo. «Perché i lavori vanno fatti come si deve - eccepisce e noi concordiamo -, non si può attraversare mezza Europa e poi ridursi a fare il compitino. Per fortuna non sono l'unico a vederla così e quindi mi sono trovato con altri due amici ad affrontare questa avventura. Il venerdì abbiamo ritirato il pacco gara (pietra compresa!) e testato un paio di settori di pavé. Sabato notte, sul pullman delle 4 e mezza che ci ha portato alla partenza di Busigny ci siamo chiesti, reduci dalla splendida esperienza sul percorso lungo (240 km) del Fiandre per quale ragione anche alla Parigi-Roubaix non si effettua il percorso completo dei professionisti. Dieci ore più tardi avremo la risposta. Pochi chilometri di strada per scaldarsi e poi via nel primo settore. Pur avendoli testati il giorno prima la faccenda ha cominciato a mostrare subito la sua complessità, i primi tratti presentano degli inattesi saliscendi e la tenuta della bici sembra subito messa alla prova. Tant'è che nel secondo settore tra pavè, fango, schiena d'asino e discesa ho perso il controllo della ruota posteriore e... ho assaggiato subito come le pietre del Nord siano dure come quelle italiane. Niente di grave, qualche piccola escoriazione, la gamba destra infangata ma la bici integra. Sono ripartito ma, nei rimanenti 27 settori, ci sarà da soffrire. E così è stato, settore dopo settore il dolore alle mani e alle braccia arriverà ad essere quasi insopportabile. Quasi, perché ogni settore dura esattamente un secondo meno rispetto a quanto il mio corpo e la mia mente siano in grado di resistere. Nel tratto di asfalto successivo sono riuscito sempre a riprendermi e tornare a sviluppare un buon ritmo. L'obiettivo è quello di arrivare in tempo per poter entrare trionfalmente nel velodromo: le professioniste inseguivano e non potevamo tardare troppo. I settori si susseguono prima tre stellette, poi due, poi quattro. Le stelle si susseguono e il pavè sembra sempre più duro. Poi arriva la Foresta di Arenberg. E la Foresta di Arenberg è un'altra cosa. Non è un settore di pavè come gli altri, sono pietre buttate a casaccio su un rettilineo che dovrebbe rappresentare una strada. La ruota posteriore scivola, la ruota anteriore scivola, il manubrio vola, i compagni di avventura anche. Si dice che bisognerebbe mantenere una velocità alta per sopperire alle asperità. Si dice... La realtà è che quel dannato rettilineo è una strettoia verso l'inferno. In un modo o nell'altro arrivo in fondo vivo e con la bici ancora integra, zero forature finora. Sia per me sia i miei amici, incredibile a dirsi e sarà così fino alla fine. Altri chilometri di asfalto e altri settori di dolore. Fino al Carrefour de l'Arbre. È l'ultimo settore a cinque stelline e uno dei miei preferiti, siamo entrati senza paura e abbiamo sentito subito il calore del tifo, l'emozione di avercela quasi fatta. Le ultime centinaia di metri sono tutte con il vento contrario e in mezzo a centinaia di tifosi arrivati da tutto il mondo. Ma dal Carrefour mancano ancora tre settori alla fine e quello che prima sembrava facile ora sembrava terrificante. Non importa, l'obiettivo è sempre il velodromo e va raggiunto. In fondo... Sono solo pochi km! Siamo entrati nell'ultimo settore e con la rabbia per il dolore che gli altri settori mi hanno imposto sono scattato con tutte le energie rimaste. Sotto l'arco con l'1 barrato mi è venuto da piangere, siamo entrati nel velodromo. Un sogno si è avverato, ci siamo aspettati, ci siamo avvicinato e abbiamo attraversato il traguardo insieme. A sette ore dalla partenza e dopo 55 km di pavé siamo ridotti uno straccio ma felici. Un'altra Monumento è in saccoccia e nessuno potrà togliercela. Un mio amico prima di partire ha detto che la Parigi-Roubaix è come far sesso con un gorilla: tu puoi iniziare ma sarà lui a decidere quando smettere. Mai frase fu più vera. Al chilometro 174 posso dire che ha ragione, ha tremendamente, superbamente, splendidamente ragione».

Stefano Pepe

Dal Varesotto, il 40enne Paolo Negri dedica l'impresa agli amici Fabio e Claudio, senza i quali il sogno di avventurarsi nei 175 chilometri del lungo non si sarebbe mai avverato. « Il desiderio di sentire sotto le ruote quel fatidico manto stradale era così impellente che, prima di cena, esattamente l'ultima cena antecedente la partenza, ci siamo recati a vedere, a studiare, quasi a parlare con "quel primo settore di pavé", proprio lui! Ed è stata quasi una confessione, una preghiera, un ringraziamento. E lui era lì, simile ad un serpente divino a riposo, pronto ad accoglierci sulla sua schiena fatta di scaglie di pietra. E noi, alquanto eccitati, come al parco giochi, ci siamo incamminati con divertimento, contenti che la Roubaix, dopo anni e anni di dirette tv viste dal divano, era ora una realtà, ora un viaggio, o forse di più, un corteggiamento per quella corsa per certi versi elegante (il paesaggio circostante), per altri brutale (le possibili cadute), imprevedibile (i guai meccanici), e in tutto questo indubbiamente seducente (la sua storia, le sue strade). Avremmo dovuto portare un mazzo di rose da deporre al primo settore per la devozione, ma ci siamo limitati a qualche foto festosa e a una promessa: a domani! Fare la Roubaix è recuperare quel bambino che è in noi, dargli il palmo della mano. Ricordate quando da piccoli volevate saltare nelle pozzanghere e vi era vietato? Volevate farlo perché vi piaceva da matti senza chiedervi il perché. La Roubaix è la stessa cosa. Ti fanno male le mani, sobbalzi di continuo, la bici vacilla e tu preghi che resista, i quadricipiti diventano di marmo, stai attento a non perdere l'equilibrio...eppure ti piace da morire, sorridi e ne vuoi ancora. Sono così le cose belle: semplici, naturali, vitali. Buon arcobaleno a tutti».

Paolo Negri

Infine ecco gli Alberti, padre e figlio. Il 41enne Matteo e papà Piermario, che di primavere ne ha 70. Impegnati sulla distanza dei 145 km ("La Mythique"). «Lui è il vero ciclista della famiglia, pur avendo iniziato a poco meno di 50 anni - fa notare Matteo -. Insieme abbiamo percorso salite in Italia e all'estero e nel 2022 l'ho trascinato a fare Galibier, Alpe d'Huez e Croix de Fer. La partecipazione alla Challenge è stato il regalo per i suoi 70 anni: siamo partiti con un camper a noleggio da Milano, tappa a Strasburgo e arrivo a Roubaix. Lì abbiamo dormito nel parcheggio dell'Auchan, da dove partivano i bus per Busigny, insieme a tanti altri partecipanti che arrivavano da tutta Europa . Noi non siamo camperisti e anche questo ha fatto parte dell'avventura. Il giorno della Challenge è iniziato con il brivido, ovvero la caduta di mio padre al primo chilometro, da fermo, ad un semaforo. Ed è proseguito in un crescendo di emozioni: alla Foresta di Arenberg, il primo tratto di pavé previsto dal nostro percorso, ho pensato che forse avevo esagerato a coinvolgere mio padre in questa impresa. È stato come scendere una rampa di scale con la bici da corsa. Gli altri tratti, seppur molto impegnativi e non comparabili con quello che noi chiamiamo pavé, sono stati più gestibili. Ho cercato di assaporare ogni chilometro: il tratto di Mons-en-Pévèle è per me quello più suggestivo, mentre sul Carrefour de l'Arbre, dopo quasi 130 km, ho sgasato al massimo per godermi fino in fondo quel momento. Abbiamo chiuso il percorso uno di fianco all'altro, nel velodromo di Roubaix come Tafi, Museeuw e Bortolami nel 1996: io sulla mia Cinelli Zydeco, lui su una Tommasini in titanio che ha rubato l'occhio a tanti altri partecipanti. Entrambi abbiamo racconti a sufficienza per annoiare tutti quelli che ci circondano per i prossimi anni».

Questo è solo uno spaccato dell'Italia che pedala tra le pietre dell'Inferno. E molti di loro stanno già contando le settimane che mancano alla prossima edizione.

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Matteo (sinistra) e Piermario Alberti.

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