Alpe d'Huez: la salita più famosa di Francia

Durante l’anno è piuttosto tranquilla, ma nel giorno dell’approdo del Tour de France, si accende venendo presa d'assalto da un popolo eterogeneo ed esuberante. I suoi tornanti in questa occasione ospitano tifosi di varie nazionalità (c'è la curva dei Norvegesi, quella dei Gallesi, ecc.), ma durante l'evento si parla una sola lingua: quella universale del ciclismo

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Un gran casino. O, per essere più eleganti, una gran confusione. È questo ciò che, prima ancora delle piste e degli impianti del comprensorio sciistico invernale, delle boutique di prodotti tecnici, degli hotel e delle case perfettamente rifinite in legno, viene in mente di solito quando si nomina l’Alpe d’Huez. E non potrebbe essere altrimenti perché le giornate in cui il nome di questa salita è sulla bocca di tutto il mondo, sportivo e spesso anche non, è quando viene presa letteralmente d’assalto dai tifosi in occasione dell’arrivo del Tour de France diventando la più reale e contemporanea rappresentazione della biblica Torre di Babele. Per una giornata intera, infatti, la gente popola i celebri ventuno tornanti di quest’erta dell’Isère dimenticando la propria lingua e adottandone un’altra, quella universale del ciclismo, prima di separarsi e riappropriarsi del proprio idioma natio nel tragitto di ritorno verso casa. Una sola lingua dunque, proprio come è narrato nella Genesi, viene adoperata per mettere in piedi non una torre verso il cielo ma, in questo caso, una tortuosa e spettacolare cornice verticale fatta di colori (quelli delle scritte sull’asfalto, delle maglie variopinte degli amatori, degli striscioni fantasiosi inneggianti ai campioni, dei fumogeni, dei costumi festanti indossati dalla gente), di rumori (urla, canti, incitamenti) ma anche di odori (birra e sudore su tutti) e sapori (quello fresco e dissetante dell’Orangina, quello salato delle salsicce alla griglia, quello zuccherino dei gelati confezionati).

Tutto si mescola e tutto si confonde (verbo da cui, non a caso, in ebraico deriva il termine Babele) lungo i 13,8 chilometri dell’Alpe d’Huez, un’asperità che generalmente durante l’anno tende a essere sonnacchiosa o comunque mediamente poco trafficata ma che, proprio nel giorno dell’approdo della Grande Boucle, si anima venendo assaltata da un popolo quantomai eterogeneo.

Ci sono giovani o giovanissimi appassionati, curiosi che si affacciano per la prima volta su questo frastornante palcoscenico, aficionados di lungo corso, fan club, persone attratte dalla cassa di risonanza dell’evento e dai racconti degli anni precedenti, gente che sale a piedi, individui che camminano, corrono o passeggiano col proprio cane, genitori che, sorridenti, trascinano il rimorchio coi propri pargoli e, ovviamente, centinaia di ciclisti. La fiumana di persone che s’inerpica per la salita pare non arrestarsi mai, per tutti c’è un saluto, un incoraggiamento, a volte anche una spinta finché non si arriva in cima o, più semplicemente, si raggiunge il punto migliore per fermarsi e godersi il passaggio della corsa. C’è spazio per tutti (anche se non si direbbe) sull’Alpe d’Huez, uno spazio che nella maggior parte dei casi si tende ad occupare arbitrariamente ma che in altri, invece, “spetta” di default ad alcune specifiche comitive. È il caso della curva dei norvegesi, di quella dei danesi, del tornante dei gallesi, dell’Irish Corner e della ben più nota e folkloristica virage des Hollandais, la curva degli olandesi, una sorta di birreria a cielo aperto debordante di chiassosi supporters vestiti d’arancione pronti a riversare su chiunque cascate di decibel e cori entusiasti. Transitare per quel tratto è per molti un’esperienza mistica, quasi allucinogena (definizione, visti i sentori solitamente presenti nell’aria, quanto mai pertinente), sicuramene d’impatto, un momento unico dove la fatica per i 7,5 chilometri già nelle gambe svanisce per lasciar spazio alla curiosità, all’incredulità e a interrogativi come “ma davvero siamo qui per una gara di ciclismo?” Immaginarsi quel punto, come la salita nella sua interezza, priva di quel festoso accompagnamento è un esercizio improbo in cui la mente, per ore assorbita e totalmente coinvolta dal gioioso fragore di quel contesto, quasi inconsciamente si rifiuta di cimentarsi.

Perché è così, un giorno di ordinaria ed esuberante follia, quando il Tour giunge sulle rampe all’8.1% di pendenza media (13% la massima) dell’Alpe, una salita di 1.124 metri di dislivello che, dal 1952 (vittoria di Fausto Coppi) al 2022 (Tom Pidcock), ha visto ospitati 31 arrivi di tappa della più grande stage race del mondo e ha applaudito otto affermazioni olandesi, sette trionfi italiani (oltre a Coppi, Gianni Bugno nel 1990 e nel 1991, Roberto Conti nel 1994, Giuseppe Guerini nel 1999 e Marco Pantani nel 1995 e nel 1997) quattro successi francesi, tre spagnoli, tre statunitensi, due inglesi, un lussemburghese, uno svizzero, un portoghese e un colombiano. Il melting pot, dunque, è riscontrabile non solo lungo la strada ma anche nell’albo d’oro di chi ha primeggiato al Tour in cima a questa scalata nominalmente francese ma in pratica molto internazionale, una salita che, a prescindere dalla propria lingua e dalla propria origine, col suo attacco impervio, i tornanti che concedono una tregua e il finale più agevole, oggigiorno si può definire dura ma non durissima, esigente ma non infernale (a differenza del clima spesso torrido che in tutti i sensi vi si può riscontrare), severa ma non impossibile.

Non è impossibile nemmeno trovare riparo salendo all’Alpe d’Huez dato che, nei mesi estivi, la vegetazione (specie nei primi chilometri) che avvolge la lingua d’asfalto consente in più momenti di nascondersi dai raggi solari e attenuare per qualche decina di metri la morsa dell’arsura. Tale scudo naturale permette, dove è più folto, di non cadere nella tentazione di guardare all’insù e venir scoraggiati psicologicamente dalla visione della strada ancora da percorrere, un gesto che diventa spontaneo fare nei punti in cui gli alberi si diradano e rendono nitido il tragitto verticale da coprire di fronte a sé. Ecco che allora si cercano altri obiettivi su cui posare lo sguardo: la linea bianca di mezzeria, la propria ruota o, per chi non ama pedalare ingobbito, i nomi dei campioni primi in vetta riportati sui cartelli indicanti il numero di ogni tornante. Kuiper, Hinault, Herrera, Mayo, Sastre, Pinot... Tale esercizio, sarà anche per effetto della fatica, può portare per qualche istante a vederli lì, a immaginarseli al proprio fianco uno dopo l’altro, dediti tutti, anche loro, a pigiare sui pedali. La loro effige fantasmatica proiettata dalla mente fa sì che il passato (più o meno recente) e il presente, come le lingue di chi attende a bordo strada, per l’occasione si mescolino, si contaminino, si intreccino in maniera sostanzialmente indistinguibile. Confusione su confusione. Gli incitamenti multilinguistici dei tifosi già assiepati non si capisce se siano rivolti (anche) a loro, a quelle figure inconsistenti, a chi passa sotto il loro naso proprio con le divise di un tempo o a chi, più umilmente, sta tentando solo di arrivare in cima. Ancora confusione. Così passano i chilometri e si arriva infine ad approcciare l’abitato di Huez dove, con il diminuire della pendenza, l’andatura torna a salire e assieme ad essa anche la lucidità. “Quante trombette hanno attentato all’integrità dei miei timpani? C’erano davvero Super Mario e Luigi che si rincorrevano a bordo strada con dell’acqua? O era solo un’allucinazione? E Iron Man? E Babbo Natale?” Babbo Natale forse era vero perché a quest’angolo montano oggi ha regalato un bel po’ di confusione. Perché, d’altronde, cosa sarebbe l’Alpe d’Huez senza quel gran caos?

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