Di questo, di tentativi coraggiosi e di tempi che cambiano abbiamo parlato con Mirco in occasione della presentazione della Polti-Kometa avvenuta a Milano.
Mirco, tu hai l’attacco nel DNA.
"Si, è una cosa mia, un po’ per caratteristiche, un po’ per un discorso di opportunità personali, perché alla fine negli arrivi di gruppo è difficile far risultato. È vero, tante volte la fuga viene ripresa, ma quando non viene annullata ce la si può giocare. Due anni fa ci sono andato vicino a Cuneo, quindi proveremo a ripeterci anzi... a fare meglio".
Ma fugaioli si nasce o si diventa secondo te?
"Partiamo col dire che ognuno, con onestà, deve trovare il suo ruolo nel ciclismo. Essere fugaiolo, per me, è qualcosa che devi sentire dentro perché andare in fuga è un sacrificio enorme: quando ho vinto la maglia a punti della Tirreno, che è una corsa super esplosiva, è stata dura lanciarsi all’attacco tutti i giorni. Devi essere pronto all'autodistruzione e questo deve venire da dentro perché, quando vai in fuga una prima volta, fai una fatica bestiale e il risultato che ottieni è 0, ti viene da rifletterci e se non hai quello slancio dentro poi fai fatica a riprovarci".
A tuo avviso la fuga perfetta esiste?
"La fuga perfetta penso che esista: è quella che arriva a dove te la puoi giocare. Sta tutto nel crederci, nel cogliere le occasioni giuste e i momenti giusti. Poi ci vuole anche il “fattore C” che non hai sempre dalla tua, ma quando capita..."
Il “fattore C” può anche consistere nel trovarsi in fuga con buoni compagni d’avventura. Se dovessi indicare qualche compagno di fuga ideale con cui sei andato all’attacco, chi diresti?
"Direi Tonelli della VF Group-Bardiani CSF-Faizanè. L'anno scorso, ad esempio, c'è stata tanta bagarre per andare via alla Milano-Sanremo, io e lui siamo partiti, siamo rimasti davanti a tutti e abbiamo aspettato gli altri finché non si è formata la fuga. Insomma, sapevamo come muoverci e quello che stavamo facendo. Abbiamo fatto tanti anni insieme e oggi, nonostante corriamo in squadre diverse, a volte non dobbiamo neanche parlarci, basta un’occhiata. Lui è un compagno di fuga con cui so che tante volte si potrebbe arrivare".
Qualcun altro con cui magari ti piacerebbe trovarti all’attacco?
"Non saprei. Trovarsi in fuga con tanti “cavalloni”, come li chiamiamo noi, poi può diventare pericoloso. Non che con Tonelli non lo sia ma diciamo che se dovessi trovarmi a perdere da lui mi andrebbe bene. Un esempio di “cavallone”? Taco van der Hoorn. Lui è un calcolatore, valuta bene quando attaccare ed è uno che, se lo trovi in fuga, tante volte sai che il tentativo potrebbe essere uno di quelli buoni".
La fuga più bella, più soddisfacente per te finora?
"Quella al Giro d’Italia 2022 nella Sanremo-Cuneo quando ho rischiato di vincere venendo ripreso a 200 metri dall'arrivo. È stata la più bella perché venivo da un paio d'anni difficili con il Covid, la caduta in cui mi sono spaccato la scapola, l’assenza dal Giro al primo anno in Eolo e stavo per chiudere un cerchio. Dopo il traguardo poi, quando sono arrivato, i compagni erano lì con me anche se era sfumata per poco...Penso sia la fuga che ricordo di più. Dopo è chiaro che anche quella della Milano-Sanremo ha il suo fascino".
Invece quella più amara?
"È la stessa. Quella di Cuneo, per me, è stata sia la più bella perché è dove sono andato più vicino a vincere ma anche quella che mi ha fatto stare più male per come è sfumata. In ogni caso ritengo che aver vissuto questa esperienza possa aiutare, possa essere uno stimolo a far meglio. Quindi puntiamo a migliorarci!".
Quali sono, secondo te, le qualità indispensabili nel ciclismo di oggi per andare in fuga?
"Resistenza, esplosività e testa. Questo perché tante volte capita di fare un milione di scatti a vuoto e poi quello buono è il successivo. Aggiungo quindi anche freddezza: bisogna essere lucidi e non farsi prendere dal panico perché poi, se accade e inizi a partire a ripetizione, rischi di bruciare le energie per andare ma anche per rimanerci in fuga".
Quindi è giusto essere calcolatori e, come dice De Gendt, “provarci più volte possibile per imparare come vincere”?
"Sì, bisogna essere abbastanza calcolatori ma non è facile quando ci tieni. Penso sempre alla tappa che ho perso nel 2022: tanti mi hanno detto “se fossi partito prima”, ma io due anni prima avevo perso un’occasione perché, appunto, ero partito per primo. In quella circostanza ero l'unico corridore di un team Professional in mezzo a corridori di quattro squadre World Tour, quindi cosa dovevo fare? Mi dovevo prendere la responsabilità per poi magari far vincere loro? Per questo dico che ogni situazione fa storia a sé e devi trovartici dentro per capire. Purtroppo, e per fortuna, il ciclismo non è matematica, ci sono mille varianti: un secondo, uno sguardo, un punto d'appoggio e cambia totalmente il risultato. Dunque, bisogna essere calcolatori ma in certi momenti seguire l'istinto è la cosa migliore che puoi fare. È chiaro che avere avuto esperienze ti aiuta perché sai che, facendo una determinata mossa, potrebbe finire in un modo e facendone un’altra in un altro... Un esempio è la tappa del Giro del 2019, quella vinta da Cima nella fuga in cui, con noi, c’era Nico Denz (che sappiamo oggi quanto vada forte): io ero quello che stava meglio, volevo arrivare a tutti i costi ma ho finito per far vincere un altro. Per cui è giusto calcolare ma alla fine ci vogliono istinto e anche un po’ di fortuna".
Cosa ti hanno insegnato tutte queste fughe alla fine?
"Che non bisogna mollare e che bisogna sempre crederci. Perché alla fine è così. Io non dovevo neanche passare professionista. Oggi mi sento chiamare “capitano” da Ivan Basso e Alberto Contador. Penso che l'insegnamento più grande che ti possa dare una fuga è proprio di non mollare mai ed è quello che ho fatto io nella mia piccola carriera. Non sono e non sarò stato un campione ma comunque penso che oggi, anche così, possa portare al meglio il mio contributo e la mia esperienza ai giovani".
La fuga può essere una lezione, un momento di apprendimento?
"Il ciclismo oggi è cambiato. Quando sono passato io nel 2016 la fuga faceva sì che il giovane imparasse a gestirsi, a migliorare la resistenza, a migliorare lo spunto perché comunque richiede esplosività. Adesso i giovani vanno forte fin da subito, quelli che vanno in fuga sono pochi e se ci vanno lo fanno per vincere. In questo il ciclismo è cambiato totalmente quindi diventa difficile oggi poter dire che la fuga sia una lezione di vita proprio perché ormai i giovani arrivano già preparati. Adesso è così e noi che siamo della vecchia guardia, della generazione passata dobbiamo adeguarci".
Sei un po’ nostalgico di quel ciclismo? Ti sei adattato bene ai cambiamenti?
"Le tappe in cui si parte a tutta ci sono sempre state, adesso però si va a tutta fin da subito quasi sempre. Per lo spettacolo e per la gente che si appassiona forse è meglio così. Noi però ne soffriamo le conseguenze. Prima partivi, poi piano piano acceleravi, andavi sempre più forte e se ti staccavi era semplicemente perché non tenevi quei valori e non ce la facevi. Invece adesso ti spegni, il corpo a un certo punto dice “basta”, di colpo, proprio perché si va a tutta. Non è un caso che sia cambiata alimentazione, fuori e in corsa, che si prendano tanti gel, tanti carboidrati ogni ora...Anche per questo nel 2024 noi in Polti-Kometa avremo un team di nutrizionisti che ci aiuterà su questo che è un aspetto chiave al giorno d’oggi".
In ogni caso il ciclismo continui a adorarlo...
"Assolutamente. Faccio ciclismo perché è una cosa che amo e per cui ho una passione vera. A me fanno arrabbiare quei giovani che dicono “Mah, sì, corro perché prendo bene, si sta bene, alla fine faccio una bella vita”. A me quello fa rabbia perché io penso che uno sport di questo tipo debba venirti da dentro, debba darti soddisfazioni, energia e portarti a dare il massimo. Non lo fai perché pensi alle due lire che metti in tasca. È anche per questo che il ciclismo a volte sembra perdere cuore, perché si sta guardando sempre di più all’aspetto economico, perché le squadre hanno sempre più budget, pagano sempre di più e tutto è sempre più legato a un discorso di soldi. Una volta era veramente una questione d’amore. Io sicuramente corro per passione perché è quello che amo fare e, come ho già detto, quando capirò che il fisico avrà detto “basta” smetterò. Non continuerò solo perché avrò un altro anno di contratto. Se farò fatica, mi fermerò. Ho 32 anni, per contratto ne avrei altri due e potrei arrivare a 34 ma c’è da rimboccarci le maniche, pedalare e tener duro ancora un po’. Andrò avanti finché ce la farò".