I custodi della Paris-Roubaix

La Regina delle Classiche non sarebbe tale se il percorso di gara non fosse costellato dai leggendari settori di pavè. Per questo c’è chi se ne occupa tutto l’anno per sventare la minaccia dell’asfalto. Il suo nome è François Doulcier e presiede l’associazione Les Amis de Paris-Roubaix

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Lo staff de Les Amis de Paris-Roubaix capitanato da Doulcier (al centro).

A tu per tu con François Doulcier, presidente dell’associazione Les Amis de Paris-Roubaix, un gruppo di volontari che si occupa costantemente della manutenzione dei settori di pavé in vista della Regina delle Classiche. Non solo cura, sotto forma di conservazione e rifacimento, ma scoperta di tratti da riqualificare, sventando così la minaccia dell’invasione dell’asfalto. Ormai pressoché scongiurata su quelle stradine di campagna, prossime al riconoscimento Unesco. François Doulcier ci riceve nel salone che funge da arteria principale di ciò che dovrebbe essere considerato il museo della corsa, che i suoi collaboratori chiamano in modo semplice “l’ufficio di François”. Un vero e proprio museo la Parigi-Roubaix ancora non ce l’ha, ma stanno provando piano piano ad allestirlo con memorabilia di vario genere gli stessi angeli custodi delle pietre: maglie, trofei, foto, articoli, striscioni e tanto pavé, di cui si racconta la storia sin dalle origini. Il museo-ufficio fa bella mostra nell’edificio adiacente alle celebri docce, dove i protagonisti della corsa venivano (e vengono tuttora, anche se meno che in passato) ritratti dai più rinomati fotografi del settore. Inutile chiedersi se il luogo sia davvero all’altezza della sua fama: la Roubaix è di per sé un enorme museo all’aperto. E molto del proprio fascino ultrasecolare lo deve all’associazione, a coloro che armati di vanga e martello puliscono e riposizionano una per una le pietre dei 30 settori della Classica Monumento più ambita.

 Il passaggio nell'iconica Foresta di Arenberg. 

Doulcier, quando è nata l’associazione Les Amis de Paris-Roubaix e come opera?

«Siamo nati nel 1977, pertanto ci avviciniamo al cinquantesimo anniversario, che contiamo di celebrare degnamente (sorride, ndr) anche se è ancora un po’ troppo presto per pensarci. L’associazione si pone tre obiettivi principali. Il primo è quello di preservare i settori di pavé. Poi vogliamo promuovere l’immagine della Parigi-Roubaix, che attualmente è molto buona ma quando l’associazione nacque non era affatto così. Anzi, direi che era pessima, soprattutto per i puristi del ciclismo classico. Sappiamo bene che la vita è un circolo soggetto ad alti e bassi e nello stesso modo in cui noi stessi siamo riusciti a sovvertire l’immagine negativa della corsa, eventuali ricadute che naturalmente non ci auguriamo possono essere messe in conto. Per questo organizziamo eventi, coinvolgendo se possibile anche vincitori del passato, come John Degenkolb, che è nostro ambasciatore, al fine di tenere vivo l’interesse per tutto l’anno. L’ultimo obiettivo è la cooperazione con gli organi di informazione, mettendo a loro disposizione foto, video e materiale informativo. Cerchiamo di farci trovare preparati alle richieste che provengono dal mondo dei media, sapendo che loro stessi sono promotori della Roubaix».

Oggi dovete preservare e restaurare le pietre, ma all’inizio avevate in testa un’idea controcorrente rispetto all’opinione pubblica. È stata dura spingerla verso il successo?

«Sono stati anni difficili, per portare a termine l’idea di cambiamento che andavamo illustrando. Più o meno il percorso dal via di Compiégne è rimasto lo stesso. È la superficie su cui gli eroi si danno battaglia ad essere cambiata. Abbiamo dovuto attendere gli anni ‘90 per vedere recuperati e resi permanenti diversi settori di pavé che oggi caratterizzano la prova. Ci abbiamo messo un bel po’ di tempo per convincere le autorità locali che il nostro era un progetto valido, quando loro avrebbero voluto riasfaltare le vecchie strade di campagna. Sono servite diplomazia e impegno ma alla fine i governatori ci hanno concesso la loro fiducia, insieme al denaro necessario per effettuare i lavori. E così dai primi anni Duemila ogni settore che viene recuperato è ormai permanente».

Eddy Merckx in visita alle mitiche docce del velodromo.

Gli enti hanno evidentemente compreso il beneficio reciproco...

«Sì, è proprio questo il punto. Hanno capito che grande patrimonio rappresentano per loro stessi e per gli appassionati i tratti di pavé presenti nei loro comuni. Qualcosa che ci hanno tramandato i nostri nonni e che noi ora abbiamo il dovere di consegnare ai nipoti dedicandovi la massima cura possibile».

Se ripensa a quel 1977, quanto è diversa oggi la Roubaix?

«Proprio nel 1977 avevamo toccato il fondo. Tra Orchies e Roubaix, ovvero negli ultimi 60 chilometri di gara, solo una decina di essi erano sul pavé. Roger De Vlaeminck entrò solitario nel velodromo, vincendo per la quarta volta in carriera, ma alle sue spalle si classificava un gruppo di una ventina di corridori. Insomma, non c’era più la selezione che tutti si aspettavano. Una cosa inaccettabile per gli organizzatori, perché la corsa aveva perso la sua stessa natura, la caratteristica che la rendeva unica nel panorama mondiale. L’ex corridore Albert Bouvet, che al tempo ne era direttore tecnico, dovette impegnarsi personalmente per trovare nuove sezioni da riqualificare, con il nostro aiuto, che con il passare degli anni è divenuto sempre più evidente. Con lui ogni anno ci siamo dati da fare per riscoprire sentieri in pavé semiabbandonati tra Denain e l’area di Valenciennes. Un esempio su tutti: a Mons-en-Pévèle si passava negli anni ‘50, poi venne dimenticato e il tratto attuale - uno dei tre soli a cinque stelle di difficoltà - è stato reinserito nel 1978. Ancora per qualche edizione il percorso non è stato così attraente, ma un importante cambiamento era già in corso. Piano piano la Roubaix ha ritrovato così la sua identità: nei 50 chilometri finali il tracciato deve essere selettivo. Ce lo chiedono i campioni che vogliono vincere e ancor di più gli appassionati da tutto il mondo».

Ancora Doulcier alle prese con il posizionamento dei cubi.

Bouvet ci ha lasciato sei anni fa. Oggi al suo posto c’è Thierry Gouvenou, anch’egli ex ciclista, uomo di fiducia di Aso e colui che disegna soprattutto il Tour de France. Sul tema Parigi-Roubaix il suo compito oggi è più agevole?

«Senza dubbio lo è. Se ha un limite, oggi la Roubaix è un po’ ingessata. Da troppi anni dopo Orchies il percorso è sempre lo stesso. Ed è difficile cambiarlo. Le uniche modifiche attualmente ci sono tra Troisvilles e Denain, nei primi 6-8 tratti. Come associazione stiamo lavorando per incrementare ulteriormente le sezioni di pavé, in modo da offrire alternative per il futuro più prossimo. Sulla base di quanto ci insegna il Giro delle Fiandre, per avere una corsa migliore è anche importante saper cambiare ogni tanto ed evolversi».

Vogliamo dare un po’ di numeri dell’associazione?

«Abbiamo 370 soci distribuiti in 17 Paesi in tutto il mondo. Il podio è rappresentato da Francia, naturalmente, poi Belgio e Stati Uniti. Si può aderire con una donazione minima compresa tra i 20 e i 30 euro all’anno, ricevendo un diploma e il giornale dell›associazione. Il nostro claim è “sans pavés, pas de course” (“senza pavé, nessuna corsa”). A lavorare siamo invece una ventina di persone. In alcuni casi è un lavoro fisicamente molto faticoso, per coloro che mettono le mani sui cubi di pietra. Occorre essere in buona salute, considerato che in ogni metro quadro ci sono circa 36 cubi, per un peso approssimativo di 400 chili: rimuoverli e riposizionarli equivale ad uno spostamento di quasi una tonnellata. Per un solo metro quadrato. Non serve un grande cervello (si schermisce, ndr) ma grandi braccia sì... Scherzi a parte le grandi aziende fanno su commissione per noi questo lavoro. Per rimettere in sesto 200 metri il costo è più o meno di 100mila euro. Dopo di loro intervengono gli studenti della scuola di formazione orticola di Raismes e del liceo di orticoltura di Lomme. S’impegnano per due settimane nel mese di marzo, sistemando all’incirca 150 metri nei settori dov’è necessario. Nei 56,5 chilometri di pavé della Roubaix sono presenti sei milioni e mezzo di pietre. Se ci pensate è un controsenso. Noi lavoriamo sodo per garantire una pavimentazione talvolta pessima, perché il tratto distintivo dell’Inferno del Nord è la sua difficoltà. Deve rimanere una prova massacrante per uomini e mezzi. Il nostro pavé non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello delle Fiandre».

Uno scorcio del museo-ufficio.

Mi spieghi in poche parole il fascino di pedalare su queste pietre.

«I corridori mi dicono ci sia una costante sensazione di instabilità, di equilibrio precario, di massimo scuotimento, di possibile rottura di componenti meccanici. Parecchi dei nostri settori hanno un netto dislivello tra cresta e banchina, il che rende piuttosto complicato percorrerli. Il cuore lavora d’intensità non certo inferiore a quella necessaria per affrontare le salite e questo è un dettaglio che pochi appassionati considerano, perché è risaputo che la Roubaix ha un dislivello complessivo trascurabile. Eppure, c’è una selezione pazzesca».

Perché il Giro delle Fiandre ha un bellissimo museo ufficiale (Crvv a Oudenaarde) e voi non ci avete ancora pensato di allestirne uno come si deve?

«In effetti quello in cui ci troviamo non può essere considerato tale. In Belgio il ciclismo è religione tanto quanto la pasta o la pizza da voi, in Italia. In quest’area della Francia non è la stessa cosa. La verità è che la Parigi-Roubaix interessa ai politici locali soltanto per pochi giorni l’anno. Durante la gara sono tutti presenti ma per il resto dei mesi dobbiamo sempre sollecitarli. Che non siamo presi troppo in considerazione lo abbiamo visto durante il periodo del Covid. Lo sport e le cultura in Francia non erano più presi in considerazione, perché ritenuti non essenziali. Per noi invece lo sono, ma non è così per Macron. I nostri politici stanno spendendo un sacco di promesse in vista delle Olimpiadi di Parigi, che dubito riusciranno a mantenere. Lo vuoi sapere un caso eclatante che dimostra la differenza nella forza del ciclismo tra noi e il vicino Belgio?».

Prego.

«Pur tra mille difficoltà, seppur in autunno, nel 2020 della prima ondata Covid il Giro delle Fiandre è stato regolarmente disputato. Si è trattato di una decisione presa di forza dal governo belga. Noi invece abbiamo dovuto alzare bandiera bianca e la corsa è stata annullata, subendo la scelta del Governo. Scrissi anche a Macron: nessuna risposta. Vedi, avevamo realizzato anche il flyer dell’edizione 2020 non disputata, così come questa che hai al tuo fianco è la pietra destinata al vincitore. Mai assegnata. Avevo pensato di inviare polemicamente il trofeo al presidente francese ma credo che sarebbe stato tempo perso. Preferisco che resti qui, a memoria di una brutta pagina per il mondo intero e, chiaramente, anche per noi».

L’ultima curiosità. Qual è il settore di pavé che preferisce?

«Oh, mio Dio... Sono innamorato del Carrefour de l’Arbre, non posso nasconderlo. Nel contesto della corsa è un punto terribile, di grande difficoltà. Ma anche estremamente affascinante, spesso decisivo per designare il vincitore, con quel pubblico straripante che urla nelle orecchie dei protagonisti. Mi piace perché è nel mezzo del nulla, se lo cerchi col navigatore non lo troverai. C’è solo un ristorante, L’Arbre, che lo identifica. È la porta d’uscita dall’Inferno».

Le capre al pascolo ad Arenberg, per togliere gran parte dell'erba tra le pietre.

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