Afghanistan: a rischio anche il ciclismo femminile, emblema dei diritti delle donne

Mentre l'Afghanistan precipita nel caos dopo la presa di potere dei Talebani, si fanno sempre più forti i timori per la vita e i diritti delle donne. A rischio è anche la possibilità di fare sport e in particolare di andare in bicicletta, in un paese in cui il ciclismo femminile era in crescita, pur tra mille difficoltà e pericoli.

Una recente competizione di ciclismo femminile (tutte le foto sono tratte dalla pagina facebook della Afghanistan Cycling Federation)

Solo due mesi fa, a metà giugno, 20 cicliste si stavano sfidando in una gara di mountain bike nella provincia di Bamyan. La stessa città che, nel 2001, era stata teatro della distruzione da parte dei Talebani delle due enormi statue di Buddha. Vent’anni dopo, con quelle giovani ragazze che si sfidavano pedalando a più non posso in mezzo alla polvere afghana, la furia iconoclasta dei fondamentalisti e le stringenti interdizioni sportive nei confronti delle donne sembravano un lontano ricordo. E ancora, poche settimane fa, ci sono state le Olimpiadi di Tokyo, con quel potentissimo messaggio lanciato al mondo intero da Masomah Ali Zada, 25enne di Kabul che ha fatto la storia partecipando alla gara di oltre 20 km al cospetto del Monte Fugji: per lei e per tutte le donne afghane il solo fatto di essere presente tra le cicliste più forti al mondo ha avuto il valore di una medaglia d’oro. Erano alcuni dei segnali incoraggianti di un ciclismo femminile che nel paese, pur tra grandi difficoltà, si stava facendo gradualmente più diffuso e importante, con circa 220 ragazze iscritte alla federazione e ben sette squadre provinciali femminili di ciclismo. Ma la silenziosa avanzata dei Talebani, e il rapido degenerare della situazione dei giorni scorsi, con la loro presa di Kabul e il caos che si è generato, potrebbero riportare la situazione indietro nel tempo.

La paura di un ritorno al passato

Una recente gara di mountain bike nella regione di Bamyan

Nonostante le rassicurazioni dei portavoce dei Talebani, ci sono molti timori per le condizioni di vita delle donne. Durante il precedente governo degli "studenti coranici", prima dell’offensiva americana, alle donne era infatti proibito di lavorare, andare a scuola, uscire senza indossare il burqa o senza la scorta di un uomo della famiglia. Figurarsi andare in bicicletta, pratica che per le donne è considerata disdicevole e antimusulmana. "Prego davvero perché il paese sia un luogo sicuro per le donne, e in particolare perché ci sia consentito andare in bicicletta per le strade - aveva dichiarato a fine luglio al Guardian Rukhsar Habibzai, 24 anni, capitana della squadra afghana di ciclismo femminile - Ma sono quasi sicura che i gruppi Talebani non permetteranno mai alle donne nemmeno di studiare o lavorare: quindi come potrebbe essere possibile che ci consentano di andare in bici? Sono convinta che non ce lo lasceranno fare, piuttosto ci spareranno".

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La bicicletta come strumento di libertà

La locandina di una gara di ciclismo dello scorso dicembre, intitolata a Malala, l'attivista pakistana premio Nobel per la Pace nel 2014

Se è vero che pedalare è solo l’ultimo dei problemi per donne che non possono decidere di studiare o chi sposare, la bicicletta può tuttavia essere una cartina di tornasole della libertà femminile e una conquista simbolica, come lo è stata anche nella non così lontana storia italiana, con figure come Alfonsina Strada, la prima ciclista donna che osò sfidare le regole pur di partecipare al Giro di Italia, beccandosi insulti e minacce. E’ così che succedeva in Afghanistan negli ultimi anni alle cicliste come Masomah, costrette ad allenarsi all’alba per incontrare meno gente possibile. Spesso, durante le loro uscite venivano prese a sassate o venivano colpite da frutta e verdura in segno di disprezzo. Proprio per questo, la giovane promessa ciclistica aveva deciso di cercare asilo in Francia, dove attualmente vive, infatti la sua partecipazione alle olimpiadi è avvenuta nel team internazionale dei Rifugiati. E mentre lei si faceva simbolo visibile dei diritti di tutte le donne, le sue compagne un po’ meno veloci, a casa tenevano duro, e ogni gara era una conquista. Le storie di queste cicliste erano state anche raccontate in un paio di documentari girati tra il 2015 e il 2016, emblematici delle difficoltà ma anche della tenacia e della passione di queste ragazze che semplicemente pedalando compivano quotidianamente un atto politico e sociale fortissimo. E ora che la situazione è precipitata – tra fughe di massa, appelli di donne che temono per la loro vita, tentativi di sommosse represse nel sangue come stiamo vedendo - ci si può solo augurare che quei metri conquistati giorno dopo giorno dai copertoni di queste eroiche cicliste verso un maggiore riconoscimento dei diritti delle donne non vadano persi di nuovo.

Le piccole regine di Kabul

Si intitola "Le piccole regine di Kabul" il documentario girato per Arte Geie nel 2016 da Katia Clarens, Pierre Creisson et Xavier Gaillar, visibile su Youtube (sottotitolato in francese). Racconta la storia delle coraggiose cicliste che, sfidando i pregiudizi e spesso anche gli isulti, le pietre e le aggressioni, uscivano ad allenarsi inseguendo la loro passione per il ciclismo. La più forte di loro, Masomah Ali Zada, è riuscita a emergere e a fuggire dall'Afghanistan, arrivando a correre le Olimpiadi a Tokyo. La giovane protagonista del documetario ora vive come rifugiata in Francia e, oltre pedalare, studia ingegneria.

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