A stretto Giro - tappa 9: il senso della fuga

La 9ª tappa del Giro d’Italia 2024, la Avezzano-Napoli, prima dell’appassionante finale con l’allungo solitario di Jonathan Narvaez ripreso nelle ultime decine di metri dai velocisti (poi regolati tutti dal colpo di reni vincente di Olav Kooij), è stata caratterizzata dalla lunga fuga di Andrea Pietrobon e Mirco Maestri (entrambi della Polti-Kometa), un tentativo che, per il numero degli uomini che lo componevano, le forze e le velleità degli sprinter presenti in gruppo, sembrava fosse destinato ad esser neutralizzato presto e con facilità

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Non nascondiamolo: in tanti, osservando i due corridori italiani fasciati di bianco-rosso percorrere prima le ampie statali aquilane e ciociare e poi il tratto costiero verso Napoli, hanno pensato che il loro attacco non avesse poi granché senso. “Dove vogliono andare?”, “Perché andare avanti e sfinirsi in questa maniera?”, “Che senso ha continuare? Perché non aspettare il gruppo e risparmiare energie in vista di tappe in cui la fuga può avere più spazio e chance di successo?”: più o meno questo, riassumendo, deve essere stato il tenore dei pensieri sul caso. Anche in telecronaca si sono interrogati su quanto potesse essere opportuno un’azione simile e se vi potessero essere ragioni altre, oltre a quelle di visibilità, per alimentarla con così tanta insistenza. Ebbene le ragioni, seppur non coincidenti col successo di tappa (sogno che comunque chiunque sotto sotto coltiva sempre finché non viene ripreso), non mancavano ed erano plurime: ottenere il premio di combattivo di giornata, salire al primo posto nella classifica delle fughe (Pietrobon al mattino distava 96 punti dalla vetta) e fare incetta di traguardi volanti (perché dopotutto non si sa mai che a fine Giro si possano conquistare anche quelle graduatorie). Queste, assieme a un’altra serie di motivazioni concrete (aumentare i propri guadagni) e astratte (mostrare quale sia l’anima e la personalità della squadra), erano più che sufficienti per giustificare la decisione di evadere dal gruppo e perpetrarla investendovi, senza risparmiarsi, watt e energie.

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A dar ulteriore consistenza e solidità alla scelta della squadra di Basso e Contador di lanciare due loro uomini in una fuga dai tratti apparentemente sconsiderati è stata poi la resilienza di Maestri e Pietrobon che, una volta riagguantati dai primi attaccanti nel finale, non si sono lasciati mollemente riprendere dal gruppo ma hanno continuato con caparbietà a fare corsa di testa restando, con il reggiano, nel vivo dell’azione fino agli ultimi 15 chilometri. Parafrasando Vasco Rossi e quindi volendo trovare un senso a questa fuga, bastava quindi guardare al quadro generale e valutare con più attenzione lo stato di forma e l’audacia di chi si era lanciato in avanscoperta per spiegare la loro presenza in testa alla gara e la genesi del loro tentativo. I motivi dell’iniziativa in coppia della Polti-Kometa dunque erano molteplici ma, a prescindere da questi, se anche il casus fugae fosse stato solo il “far vedere la maglia”, perché si sarebbe dovuto bollare come poco giustificato il loro tentativo? Ad oggi avere e trovare sponsor che investano con convinzione e continuità nel ciclismo non è scontato e, dunque, perché non dovrebbe aver senso ripagarne gli sforzi con la visibilità e le ore di esposizione mediatica date da una “fuga pubblicitaria”? Dove sta l’errore? E perché mettere in croce di default azioni di questo tipo? Spesso lo si è fatto (e lo si fa ancora) ma, se si riflette e si inquadrano queste azioni in un’ottica più ampia, le critiche mosse appaiono vuote e senza costrutto. Una fuga, a prescindere dalla nobiltà del motivo che la muove, avrà sempre un risvolto e una ragione che ne legittimano l’esistenza come è altresì vero che un attacco da lontano, qualsiasi esso sia, renderà sempre meno soporifera una corsa. Perciò, alla fine, forse è il caso di lasciarle andare le fughe, esaltarle incondizionatamente e non arrovellarsi per trovare un senso valido alla loro costituzione. Perché quello in fondo ci sarà, sempre.

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